Quinet e l'Italia di A. Galante Garrone

Quinet e l'Italia TORNA IL LIBRO SULLE "RIVOLUZIONI" Quinet e l'Italia Quando Carlo Muscctta pubblicò, nel 1935 da Laterza, la sua bella traduzione delle Riminzioni d'Italia di Edgar Quinet, in cui la storia era esaltata come l'eterno « spettacolo della libertà », la «. protesta del genere umano contro il inondo che l'incatena », lumino in molti ad avvertire il riposto spirito polemico dell'iniziativa editoriale, c a riscaldarci alla lettura di quelle pagine. Oggi Laterza ripubblica lo stesso testo, con una prelazione di Denis Macie Smith. Nella mutata situazione storica, si fa più viva la necessità di un discorso critico. Solo Aldo Garosci ne ha incidentalmente parlato anni fa, con acutezza. La piacevole prelazione di Mack Smith non ci aiuta molto a capire la genesi dell'opera. Qualche ulteriore riflessione non ci sembra inutile. E prima di tutto, non considerandosi abbastanza attraverso quali vicissitudini il libro di Quinet si fosse venuto via via formando, si à finito per guardare ad esso come a un tutto organico, mentre in realtà esso fu una faticosa ricucitura di testi pensati e scritti a più riprese, fra il 1841 e il 1851, e sotto la sollecitazione di mutevoli eventi: la chiamata al Collège de Francc a fiati codi Michelet e di Mickiewicz, a occupare la cattedra di « Sto ria delle letterature e delle isti lozioni comparate del Mezzo- j giorno dell'Europa »; le celebri lezioni sui jésuites, raccolte e pubblicate nel 1843, che additavano nel gesuitismo l'arma di cui la Chiesa romana si era sempre avvalsa e continuava a servirsi per battere in breccia la Riforma, la rivoluzione francese figlia della Riforma, la libertà moderna, c che suscitarono un'eco tempestosa; la sospensione del corso alla line del 1845; l'improvvisa fiammata del neoguelfismo in Italia; la rivoluzione del '48; il rapido precipitare della democrazia e della repubblica francese nelle braccia di Luigi Napoleone. Di qui, nell'autore, un sovrapporsi di pensieri e sentimenti difformi e, nel libro, disarmonie e contraddizioni patenti, a seconda del prevalere dell'una o dell'altra preoccupazione politica, sotto l'urto degli avvenimenti; e tutte le approssimazioni e generalizzazioni favorite dalla natura stessa delle lezioni, sempre in bilico fra storia letteraria e storia civile: e il trasparente rivolgersi alle sorti del suo paese, agli uditori e lettori francesi, anche se parlava delle « rivoluzioni » d'Italia: e, sempre, un coraggioso irrorare, incitare, sfidare, in polemica con avversari di volta in volta mutati, la borghesia organista, il partito clericale, l'astro sorgente del cesarismo napoleonico. * * In complesso, è un libro d'occasione, come sono un po' tutti i libri di Quinet; inferiore, per valore storiografico, a Marnix de Saintc-Aldegonde, e, direi, anche alla Revolution che, con tutti i suoi diletti, ha una compattezza e una coesione che qui mancano. C'è un po' di tutto, in queste pagine: storia, epos, pamphlet, dissertazione filosofica e letteraria, un profetico sermoneggiare, il tono oracoleggiante di chi si assume il compito di salvare, prima ili ogni altro, il popolo francese dai suoi nemici, e ogni altro popolo, a cominciare da quello italiano (e agli esuli italiani il libro è dedicato), il gusto oratorio, una visione eroica e solenne della storia, come dramma di ideein conflitto tra loro, i grandi individui assurti a simboli di epoche storiche. Non a torto il Mack Smith definisce Quinet un « grande generalizzatole e semplificatore »; e il l-'aguet lo ha detto, con qualche malizia, «invasato per la storia vista a grandi li itcf..., ioni piai mio a passare in rassegna l'umanità c a convocare le generazioni in una josaphal di sua creazione». Che non sono certo bei complimenti per uno scrittore di storia. Ma dello tutto questo, c'è ancora qualcosa da mettere in luce, che mi pare sia stato un po' trascurato finora. Ed è l'insistenza con cui, nel 1" Libro delle Révolittions d'Italie, è posto l'accento sulla « guerra eterna delle classi » nel Medioevo italiano, sulla divisione profonda fra i popolani grassi edpdcCd«mhsfgzpmpcmrlpslcg(cc—c—mtnccprpsitdz e il popolo mintilo. La guerra della borghesia contro il popolo, egli dice, non è un fatto dei nostri giorni; è durata secoli e secoli. Il tumulto dei Ciompi è la rivolta disperata delle classi inferiori contro la « oligarchia borghese »: che, momentaneamente spodestata, ha reagito col terrore eretto a sistema. Dopo la rivoluzione francese, la ricca borghesia degli affari, ostile alla democrazia, ha ricalcato le orme dei popolimi grassi, ed è così ricominciato il (/.prodi ani in ter popaliiin macrum et classami), come già diceva un cronista medievale. In questa visione della storia medievale italiana come lotta di classi, anticipatrice e prefiguratrice della ottocentesca « serrata oligarchica » della borghesia francese contro le classi popolari, c'è, direi, il segno palese del libro Le Petiple ( 1840) dell'amico Michelet; ma c'è, soprattutto, l'influsso delle correnti democratiche francesi — specialmente di quelle facenti capo ad Armand Carrel — a cui Quinet era particolarmente vicino, c il riflesso del travaglio sociale lattosi acuto negli ultimi anni della Monarchia di luglio. Quinet, pur non condividendo le « utopie » dei primi socialisti, sosteneva allora le rivendicazioni non solo politiche ma sociali delle masse popolari francesi, impegnate in un conflitto di classe contro la borghesia ccnsitaria. Si noti che questi accenti di sapore classista scompaiono nell'ultima parte delle Rivoluzioni d'Italia, e non riappariranno più nelle opere successive. E il fatto si spiega, se si pensa alle giornate parigine del giugno 1848 — e cioè alla disperata insurrezione contro il governo accennante a misure r'-pressivc sul terreno economico e sociale —, e allo sbigottimento che colse le classi borghesi e contadine. In Quinet, dopo queste giornate, rimase incancellabile un sospetto amaro delle classi popolari, una acuta diffidenza delle lolte di classe. Aveva visto in faccia, per la prima volta, i Ciompi del suo tempo, e se ne ritrasse con spavento. (Analoghe ripercussioni si ebbero anche in altri settori di opinione: si pensi a Mazzini, a Cavour, a Tocqueville). Dopo la «grande paura» del giugno 1848, e il progressivo indebolirsi della Seconda repubblica, e il suo precipitare nella « servitù volontaria », tutta la storiografia di Quinet si sposta su nuovi temi: e già lo si avverte negli ultimi capitoli delle Rivoluzioni d'Italia. L'ombra avanzante del cesarismo napoleonico suggerisce altri molivi polemici: contro la tirannide, il terrore, la mancanza di una riforma religiosa che sola avrebbe potuto assicurare il trionfo di un'autentica rivoluzione politica e sociale. Possiamo perfino cogliere taluni significativi capovolgimenti dei precedenti giudizi. Per esempio, nelle Rivoluzioni d'Italia ci si imbatte, a un certo punto, nel riconoscimento del terrore come necessario « strumento di governo ». Nella rivoluzione francese, «la logica comandava dì accettarne l'implacabile condizione, il terrore. I rivoluzionari che, respingendo il sistema di costrizione, respingevano il sistema della Rivoluzione, non potevano non cadere in contraddizione ». Per questo, Michele di Lamio e Soderini, i «Girondini d'Italia », furono illogici e caddero. Molti anni dopo, nella Revolution, Quinet dirà esattamente il contrario: esalterà i girondini, e condannerà l'inespiabile errore del terrorismo giacobino, e il « fatalismo » degli storici robespicrristi alla Louis Blanc. Le altre idee direttrici delle Rivoluzioni d'Italia sono troppo note perché se ne debba qui fare un lungo discorso: l'incompatibilità Ira il cattolicesimo e la libertà moderna, l'importanza di una rivoluzione protestante come premessa del risorgimento di un popolo (esempio insigne, l'Olanda), il male arrecato all'Italia dal «cosmopolitismo» imperiale o pontificio, il papato quale impedimento al prodursi della nazionalità, la fatale decadenza del nostro popolo « murato nella tomba di una religione », le funeste illusioni ilei neoguelfismo. Un'ultima domanda: perché questo libro, in realtà destinato soprattutto ai francesi, piacque tanto agli italiani del secolo scorso: Nel 1857 Francesco De Sanctis scriveva all'amico De Meis: «Ho letto giorni fa una pagina di Quinet. Dice delle corbellerie; ma le dice cos'i bene, con tanta copiai con tanto lasso di immagini! » (Forse si riferiva proprio alle Révolittions d'Italie, di cui era uscita in quell'anno una ristampa). In realtà. Quinet lu per De Sanctis uno stimolo potente! Il celebre passo sull'uomo di Guicciardini, e tante altre pagine-della Storta della letteratura italiana, ne trassero incentivo e ispirazione, pur nel profondo divario delle idee. * * Ma soprattutto, alle generazioni del Risorgimento quel libro, tulio percorso dall'idea mazziniana delle nazioni come momento essenziale dell'umanità, dall'incitamento a sbarazzarsi di ogni superstite ubbia neoguelfa e a riscoprire la propria identità e fierezza di popolo indipendente e unito, fu un viatico prezioso. Non pochi esuli se ne infiammarono. ( F. tra le carte di Quinet alla Biblioteca Nazionale di Parigi varrebbe la pena di ricercarne le tracce). Più tardi Carducci, nel difendere i sonetti del Cu ira dagli attacchi dei moderati, si sarebbe ricordato delle Rivoluzioni. Era stato per l'appunto.Quinet a dire che la Francia aveva destato l'Italia dal sonno, l'aveva costretta a levarsi, le aveva fatto udire, « come a Rinaldo, nei giardini di Armida, il suono della tromba in mezzo alle ariette di Metastasto ». Né sarebbe difficile dimostrare, lesti alla mano, che molti democratici italiani della seconda metà dell'Ottocento attinsero a questa fonte oggi dimenticala e inaridita. E' un grosso debito, che lo storico non può ignorare. A. Galante Garrone