Rivive a Genova l'arte d'Oriente di Marziano Bernardi

Rivive a Genova l'arte d'Oriente Si riapre il Museo Chiossone Rivive a Genova l'arte d'Oriente (Dal nostro inviato speciale) Genova, 6 maggio. Chiuso per la guerra dal giugno '40, e dunque totalmente ignorato dai giovani i quali non sanno che a Genova esiste una delle raccolte d'arte orientale più ricche del mondo, il Museo Chiossone si riapre domani al pubblico. Ma non nella vecchia e inadeguata sede dell'Accademia Ligustica di Belle Arti, in piazza De Ferrari, bensì in un nuovo perfettamente funzionale edifìcio progettato nel 1948 da quel valente architetto e storico dell'arte che fu Mario Labò, situato nel più grazioso giardino genovese sopra piazza Corvetto, cioè sull'area della villetta di Negro distrutta dai bombardamenti del 1942. Così il luogo ove il letterato e poeta marchese Gian Carlo di Negro ospitò il Canova e il Manzoni, la De Staél, Byron e Dickens, accoglie ora un museo che nel suo genere è unico in Italia e fors'anche in Europa. Ma prima d'accennare alle copiose e preziose collezioni d'arte giapponese, cinese, siamese — circa 15.000 sculture buddistiche, pitture (kakemono e makemono), stampe (oltre 3000 dei maggiori maestri del Sol Levante), armi e armature stupende, ceselli, bronzi, smalti, minuscoli intagli in avorio e legno (i famosi netsukè), lacche, maschere teatrali, ceramiche e porcellane, strumenti musicali, stoffe, il tutto d'un periodo che va dal terzo millennio a. C. alla seconda metà dell'Ottocento — va detto che questi tesori trovano la loro ammirevole sistemazione in un capolavoro, sia pure di limitate dimensioni, di architettura museologica moderna. Il Labò lo concepì come un unico spazio a rettangolo allungato, fornito di sette corsie o gallerie aperte collegate verticalmente da scale, precedute da un vasto atrio in cui sono in mostra le sculture più grandi. Intervennero poi, dopo la morte del progettista e nella fase esecutiva, la direttrice delle Belle Arti del Comune genovese, Caterina Marcenaro, per una parte della progettazione architettonica e dell'attrezzatura scientifica; l'ing. Luciano Grossi Bianchi per l'allestimento; il dott. Giuliano Frabetti per la schedatura di tutto il materiale; la dott.ssa Laura Tagliaferro per il controllo degli inventari, ed altri collaboratori. Ne è risultato un organismo museale culturalmente e didatticamente esemplare, dotato d'una spaziosa sala per mostre temporanee in cui l'enorme quantità di stampe, orgoglio del Museo, sarà, a rotazione d'autori e gruppi d'autori, esposta al pubblico. Modesto pittore ma eccellente incisore al bulino e all'acquaforte, Edoardo Chiossone, nato ad Arenzano nel 1832, morto a Tokyo nel 1898, fu per trentanni direttore dell'officina giapponese di carte e valori, più fortunato di Antonio Fontanesi che dal 1876 al '78 insegnò all'Accademia di Tokyo e dovette partirsene gravemente ammalato. In quel trentennio il Chiossone con acquisti oculati e relativamente facili per l'evoluzione politica del paese — fine del regime feudale e proibizione di portare armi — e l'aiuto di esperti e di dignitari di corte, potè mettere insieme la sterminata collezione che con testamento del 1898 legava all'Accademia Ligustica facendola pervenire a Genova in 96 casse: materiale d'incommensurabile valore di cui ned 1940 il Comune genovese, sempre a sensi del testamento, assunse la tutela provvedendo alla sua sicurezza durante la guerra, e dal 1953 accrescendolo con importanti acquisti, come il superbo Bodhisattva Pu-Hien sull'eie}ante della buona legge, imponente scultura lignea policroma d'epoca Sung (960-1279), o gli altri legni e bronzi d'epoca Ming (1368-1644), o le magnifiche teste di Buddha siamesi, una delle quali in pietra grigia tsec. XIV) per il rigore stilistico della forma cristallina ci ha richiamati contemporaneamente alla scultura egizia e a quella del Laurana. Pezzi al di fuori dell'area giapponese eppure ad essa intimamente, quasi misteriosamente legati; vale a dire al di fuori di quell'area artistica cui si volse il collezionismo del Chiossone. Ed in proposito se disponessimo di spazio saremmo fortemente tentati di guidare il lettore lungo le sette corsìe che sono altrettante gallerie di suggestive meraviglie. Ma occorrerebbero migliaia di parole, e tante forse nemmeno basterebbero ad illustrare la serie dei kakemono, le pitture arrotolate che si svolgono verticalmente, qui fissate sopra supporti e protette da vetri antiriflettenti. Si va dal secolo XI al XIX; sono ra: tasiomquvolerasegaLesicaarqugiteralaintegnchRDtiguincogigruppale per scuole, Yama-1to-E, Tosa, o qualificate da singoli autori: Kano Motonubu (1476-1539), So-Ga Choku-An (fine del sec. XVI), Kano Naonobu (sec. XVII), ecc., fino ai notissimi Utamaro e Hokusai, le cui stampe entusiasmarono i Goncourt e tanto influirono sugli Impressionisti francesi. Ancora una volta In questo museo ci si domanda per quali segreti echi si ripetano voci timbricamente affini tra le civiltà artistiche più dispai rate e lontane. La « Via della seta »? L'avventura dei navigatori portoghesi, olandesi? Le infiltrazioni del cristianesimo? Ma queite ipotesi poi cadono di fronte alle favolose armature dei guerrieri cinquecenteschi (e più tardi) giapponesi, strane, quasi grottesche sovrapposizioni di corazze snodate, di elmi, di celate simulanti mostri, con ingombri incredibili di ornate spade e faretre, un congegnarsi pittoresco di difese che ricordano le scaglie del Rinoceronte immaginario di Diirer. Oppure davanti ai raffinatissimi esemplari di tsuba, le guardie di sciabole finemente intagliate e cesellate per se- coli da dozzine di officine Igiapponesi, da quelle duecen-1 n e l i e e - tesene dell'epoca Hojo a quelle più tarde dei Myo-chin e di Heshiro Kido. Oppure ancora davanti agli squisiti specchi in bronzo cinesi, giapponesi, siamesi, che abbracciano culture di venti secoli; davanti alle impressionanti maschere teatrali giapponesi, dal periodo Kamakura (11921333) al periodo Edo (16031868). Tale, molto sommariamente, lo spettacolo che si gode nel nuovo Museo Chiossone. Ci si affaccia di nuovo sul delizioso giardino di Negro con negli occhi ancora la visione degli otto pannelli centrali di due paraventi che rappresentano le battaglie fra i Taira e i Minamoto a Dan-no Ura e a Ichi no Tani, pitture giapponesi trecentesche. Le avesse viste Paolo Uccello avrebbe gridato di gioia: e trasformato quell'irruente, feroce dinamismo nelle statiche misure della e I sua « dolce » Prospettiva, -1 Marziano Bernardi

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