Festa giacobina sul palco

Festa giacobina sul palco Lo spettacolo al Teatro delle Dieci Festa giacobina sul palco Due «prime» teatrali in una sera - Per l'Unione Culturale «Alleluja Requiem. L'Occidente è morto» di Cosimo Cinieri Questi bravi ragazzi del Teatro delle Dieci (ragazzi, ormai, per modo di dire: è la loro tredicesima stagione) si sono guadagnati almeno due titoli di merito facendo conoscere al pubblico torinese, e spesso in anticipo sui tempi e sulle mode, gli autori di avanguardia (Ionesco, Genet, Beckett, Tardieu, Arrabal ecc.) e tentando di ricuperare un patrimonio culturale prettamente piemontese (l'Alione, ad esempio) .il quale appartengono anche i testi del periodo giacobino che Gian Renzo Morteo ha cucito insieme in un collage presentato ieri sera nel Ridotto del Romano. Festa repubblicana con pranzo patriottico e rappresentazione de « Il feudatario punito » di Fortunato Radicati, seguirà il tristissimo epilogo della Restaurazione: il titolo è più imponente della minuscola sala alla quale da anni la compagnia è tenacemente abbarbicata, ma fortunatamente lo spettacolo non è altrettanto lungo. La forzata interruzione dovuta alla malattia dell'attore Walter Cassani, ora validamente sostituito da Roberto Go, ha dato il tempo di lavorare accortamente di forbici. Intorno al nucleo di un « melodramma » del Radicatisenza musica! non ci fu il tempo di provvedervi — rap- el I presentato nel 1301) in un teazi, i tro di via Po, è stata libera- è e) o o eui ueu, di ulno) he bieo olel nauti, go lo uni te aalnatauito ormente ricostruita una festa giacobina sotto l'albero della libertà seguita da un banchetto « per 531 cittadini e altrettanti poveri » e dalla recita, appunto, del Feudatario punito. Questo è un edificante ricalco della tradizionale opera buffa che, oltre ai consueti attacchi contro la nobiltà e il clero, contiene un preciso riferimento alla confusa situazione politica di allora portando in scena il personaggio storico del fuorilegge Branda Lucioni, postosi a capo di una banda di fanatici controrivoluzionari. Ancora più singolari altri testi: da una scena della Figlia del fabbro di Federici, in cui si disserta sull'ingiusta discriminazione tra i sessi, ad articoli e manifesti del tempo, da un « catechismo » sull'istruzione a un discorso sui fìtti, tutti contribuiscono a una collocazione storico-geografica precisa del collage. Lo spettacolo poi, allestito anche registicamente da un collet-1 tivo ( l'infaticabile Giovanni Moretti, l'esperta Vittoria Lotterò, la promettente Dede Bozzola, i sicuri Franco Vaccaro e Claudio Parachinetto oltre al citato Go), ha un'aria un I curiosamente naif che tutto ati, sommato gli si addice e che il | viene sottolineato dall'uso ab- p- o i tinei ai- \ ™l Pr.0ff!mo^..spi?la^..tc.^ bastanza divertente dei fantocci, mascheroni e marionette ideati da Francesca Moretti e dalle musiche rielaborate da Sandro Gindro. Detto questo, l'impaccio e l'approssimazione che stavolta insidiano le rappresentazioni del Teatro delle Dieci, neppure qui rimangono inavvertiti. Non danno però ecces. j sivo fastidio e potrebbero attenuarsi nel corso stesso delle repliche e, mettendocela tutta, addirittura scomparire ne | ?la s'annuncia di maggiore ca- impegno e più forte interes e !se: 11 29 lU(Jlt0- vlta e morte i na atvemdu at enianomanon uei veoldure. onna rao ». di di un anarchico, otto fogli volanti, per otto attori di Jona e Liberovici sulla figura dell'uccisore di Umberto I che anche il « Piccolo » di Milano si appresta a rievocare con W Bresci! di Kezich. Ciò che non va, ed è una colpa veniale, nello spettacolo di Cosimo Cinieri presentato ieri sera ai soci dell'Unione culturale, e che si replica stasera e domani per il pubblico, è il titolo fastidiosamente apocalittico: Alleluia Requiem. L'occidente è morto. Meglio il titolo che credo fosse quello originale, Chez Mignot, il quale, a chi intende il romanesco, indica abbastanza esaurientemente, e stjnza tanta spocchia, la fine che secondo l'autore ha latto la cultura occidentale o, semplicemente, il teatro. Lo spettacolo invece va, e non direi affatto che si tratti di antiteatro anche se galleggiano in esso i monconi dei nostri grandi tragici, da Eschilo a Shakespeare e a I Ibsen (e chissà chi altri ancora: ci si può divertire anche con il gioco delle citazioni i, relitti di battute urla-1 te, storpiate, sussurrate, e | continuamente interpolate in i una sorta di racconto, o filo conduttore (si fa per dire) i che è poi II cuore rivelato-1 re di Poe. Caso mai, si potrà trattare, chiedendo prima scusa per usare una parola j logora, di dissacrazione, come si diceva anni fa — le | avanguardie invecchiano rapidamente — a proposito di | Carmelo Bene, del quale il Cinieri si mostra subito un nipotino ben cresciuto. A Cinieri forse dispiacerà sentirsi rinfacciare la paren- tela con l'attore pugliese (e anche lui è di quella regione), ma la prenda come un] omaggio alle sue notevoli doti, oggi piuttosto rare, di attore comico grazie alle quali il suo non è, prima di tutto, uno spettacolo tetro. Anzi, lo percorre un humour non facile ma nemmeno, mi sembra, per iniziati. Basta non stare a chiedersi che cosa significa questo o quello, e badare piuttosto alle invenzioni mimiche o verbali, all'uso di stracci e di ciarpame da robivecchi, ai giochetti di luci e suoni (sono di Stefano Colucci e alla gaia e fracassona colonna musicale collabora Francesco Pennisi), senza perdersi l'intermezzo in cui i tre interpreti si siedono tranquillamente a tavola a mangiare la pastasciutta. Certo, il Cinieri e i due compagni, Vivian Lombroso e Bernardo Solitari, che gli fanno da « spalle » con clownesca tontaggine, non scoprono molto di nuovo e lo spettacolo, se non durasse solo un'ora, rischierebbe di stancare. Ma manca il tempo. I a. bl.

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