Il pci sotto Stalin

Il pci sotto Stalin Spriano: il frontismo e la guerra Il pci sotto Stalin Obbediva al dittatore pur con la certezza di sbagliare Paolo Spriano: « Storia del Partito comunista italiano », voi. III (I fronti popolari, Stalin, la guerra), Ed. Einaudi, pag. 362, lire 4200. La caccia alla rivelazione e allo scandalo è la chiave di lettura più ovvia di tutta la recente storiografia marxista. Nelle opere di uno Spriano o di un Ragionieri sì va a cercare soprattutto il particolare inedito, il documento disseppellito dagli archivi,l'episodio finora censurato. In questo campo la messe è certo abbondante e utile: ma non sono gli spezzoni di notizia a costituire la ' novità fondamentale, per esempio, del terzo volume della Storia di Paolo Spriano, che pure ne è ricco ancor più dei primi due. Il frutto nuovo di questa ricerca, puntigliosamente disancorata dal mito, è piuttosto la visione d'insieme che essa offre di un partito comunista che, nel periodo cruciale dei fronti popolari, delle purghe staliniane e del patto RibbentropMólotov, ebbe più chiara degli altri la coscienza degli errori che la ragion di Stato sovietica gli imponeva di commettere e di avallare. II patto con i nazisti Quasi sempre questa coscienza rimase allo stato di riserva mentale, come Spriano sottolinea, ad esempio, parlando dell'adesione di Togliatti alla « linea » dell'Internazionale comunista sul patto tedesco-sovietico, enunciata il 7 novembre 1939 da Dimitrov. Sia a Mosca, sia nelle carceri e nei luoahì di confino italiani, molti dirigenti comunisti rimasero sempre intimamente convinti che il patto non avrebbe evitato l'aggressione imzista all'Urss; alcuni di essi, come Terracini e la Ravera, contestarono la parola d'ordine ufficiale dell'equidistanza fra i « due imperialismi » anglo-francese e tedesco, e questo dissenso costò loro l'espulsione dal partito. Ed è un segno beffardo della provvisorietà strumentale di quella parola d'ordine, che suscitò tanti conflitti di coscienza fra ì comunisti di tutta Europa, il fatto che Stalin dichiarasse, nel 1946. che la seconda guerra mondiale « prese sin dall'inizio un carattere di guerra antifascista e di liberazione ». Era, in fondo, la lotta preconizzata e teorizzata nel 1935 dal VII congresso del Komintern, che aveva innalzato la bandiera delle tradizioni nazionali proprio in funzione. della lotta contro il fascismo, e quella dell'alleanza di tutte le forze democratiche per abbattere i regimi autoritari. In Francia, e poco dopo nella Spagna mortalmente minacciata dalla sedizione franchista, l'applicazione della politica dei fronti popolari risultò facile e, in un certo senso, automatica: la spinta alla coalizione antifascista veniva dai socialisti e dalla borghesia radicale non meno che dai comunisti e dalla gravità stessa della situazione. Per i comunisti italiani, che da tempo avevano perso il contatto con la realtà del paese e avevano visto decimati e dispersi i quadri operanti nella clandestinità, il problema era più difficile. A parte i gruppi superstiti del mondo politico liberale, in Italia si stavano coagulando due correnti nuove di opposizione al regime: l'una intransigentemente antifascista, l'altra interna al partito fascista, carica di confusi fermenti anticonformistici e di richiami alla « socialità » delle origini. Questa situazione, nota Spriano, pose il gruppo dirigente del Pei dinnanzi a «un dilemma non facilmente scioglibile: da un canto, l'impostazione del fronte popolare richiede un'accentuazione dello spirito antifascista, soprattutto nei confronti di quei gruppi o formazioni che si caratterizzano quasi soltanto come antifascisti, dall'altro la convinzione che il compito primo sia quello di lavorare in mezzo ai fascisti porta con sé la tentazione di valorizzare alcuni motivi del fascismo originario... in modo certo strumentale ma che non può non oscurare e compromettere lo slancio unitario nei confronti del Psi, di GÌ, dei repubblicani, ecc. ». Dinanzi a questo dilemma si arriva ad una scelta sconcertante: ancora nell'agosto del 1936, dopo che in Spagna è cominciata la guerra civile, il Pei lancia lo slogan della « riconciliazione nazionale » tra fascisti e antifascisti, con l'assunzione del programma fascista del 1919 come « programma di pace, di libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori ». Solo nel tardo autunno si procede a capovolgere la formula con l'aria di rettificarla: « Non riconciliazione col regime fascista, ma riconciliazione del popolo italiano per abbattere il regime fascista ». Tatticismo esasperato Errori come questo — dovuti, in parte, alla precarietà dei collegamenti fra il partito e l'Italia, e anche fra i dirigenti residenti a Mosca e quelli che operavano a Parigi, ma in parte altrettanto notevole a un tatticismo esasperato e al proposito di « far polìtica » ad ogni costo — furono pagati dal Pei assai duramente, nonostante la condotta coraggiosa di dirigenti e militanti nella guerra di Spagna. E ancora più pesante fu il prezzo che esso dovette pagare per gli errori e le contorsioni che gli vennero imposti dalla necessità di conformarsi ai dettati staliniani. Dal racconto di Spriano appare evidente, per esempio, che se le grandi purghe del 1936-39 risparmiarono il gruppo dirigente — a differenza di quello, per citarne uno solo, del partito polacco, che venne sterminato — la caccia frenetica al trockìsta e al bordighiano scatenata al tempo delle epurazioni ne paralizzò per molto tempo l'attività e non sottrasse alle persecuzioni della Nkvd e alla soppressione fisica tanti oscuri militanti emigrati nell'Urss. Le dichiarazioni e i documenti inediti citati da Spriano non smentiscono, ma sostanzialmente confermano, entro certi limiti, la coerenza e la continuità della politica del Pei sotto la direzione di Togliatti: una politica che, attraverso l'inevitabile allineamento con le ragioni di sopravvivenza e di potenza dello Stato sovietico, e a prezzo di compromessi a volte umilianti, mirava a conservare intatta la possibilità di uscire non dall'orbita, ma dalla soffocante tutela staliniana. Che questo proposito fosse nell'animo di Togliatti, lo si vede da quanto egli confidò a Ernst Fischer nel momento più tragico delle purghe: « Se noi ritorneremo nei nostri paesi, ci deve essere chiaro fin dal principio: lotta per il socialismo è lotta per una maggiore democrazia. Se noi non saremo i democratici più conseguenti, la storia passerà sopra di noi ». Che fosse un programma a lunga, lunghissima scadenza, lo si vede ancor oggi. Mario Bonini Vittorio Vidali in trincea, su uno dei fronti di Madrid