Così è Reggio, due mesi dopo di Michele Tito

Così è Reggio, due mesi dopo INCHIESTA NELLE ZONE "CALDE» DEL MEZZOGIORNO Così è Reggio, due mesi dopo La città vive in una calma sospesa e inquieta - Ha trasformato la rivolta, nata da una lunga rabbia e caduta in mano all'estrema destra, in un'epopea collettiva - Restano tutti i problemi: mancanza di lavoro e di speranze, disoccupazione dei diplomati e laureati, miseria; ma questa volta ci sono anche un netto rifiuto dell'emigrazione, un'accentuata diffidenza per le grandi imprese industriali, e la decisa volontà di affermare sé stessa Incomincia con questo articolo un'Inchiesta condotta da Michele Tito nelle zone del Mezzogiorno, dove sono esplose In tempi vicini manifestazioni di rivolta o di rabbia. Da Reggio Calabria a Battipaglia, il nostro Inviato ricerca le ragioni del moti, le condizioni del presente, le prospettive del futuro. (Dal nostro inviato speciale) Reggio. Calabria, dicembre. I tre mesi di rivolta sono divenuti un'epopea. Una città che non aveva storia ora ha una implacabile « memoria collettiva ». Nella piazza Italia, ove in luglio gli scontri furono più duri, già più di un secolo fa, nel 1847, un gruppo di cittadini insorse contro il barone del posto e contro i Borboni. Gli insorti furono tutti fucilati nella stessa piazza Italia: « Questi — dice il « Comitato d'intesa» — sono i nostri precedenti ». La città- si sentiva sacrificata e ferita già alla fine del secolo scorso. Nel 1884 la commissione parlamentare dell'inchiesta Jacini sull'agricoltura si recò a Reg, gio per indagare, e il sindaco invitò centinaia di persone per un gran ricevimento: nessuno accettò l'invito: « Questa fu la prima protesta collettiva dopo l'Unità » — dice il sindaco Battaglia. I torti subiti Ora la città ha dimenticato la lunga tragedia della lotta dei poveri contro i signori. Non riconosce nel proprio seno né baroni né contadini, né borghesi né operai. La storia, adesso, è la storia dei torti subiti tutti insieme: il terremoto del 1908 e le baracche degli scampati, l'acqua attesa come un miraggio e le alluvioni del '51 e del '53 e gli aiuti scarsi e lenti, l'emigrazione, la crisi dei campi intorno alla città e le promesse mai mantenute mentre da Reggio partiva, ripètuto senza sosta dal '65 in poi, l'appello unanime di tutti i gruppi affinché sì discutesse dell'intera Calabria. E' la storia dei segni premonitori, sempre ignorati, dell'esplosione imminente: uno sciopero degli avvocati per nove mesi, uno sciopero dei commercianti, uno sciopero generale, una serie di manifestazioni di studenti, di contadini, di operai, il ricorso ripetuto ai « grandi » della Regione, ai Mancini, ai Misasi, ai Pucci e le ultime « missioni » a Roma dei maggiorenti: « Sta diventando troppo tardi: per l'Università, per il capoluogo, per il quinto centro siderurgico, per qualsiasi cosa, scoppierà la tempesta ». Nell'attesa è nata la solidarietà tra tutti i ceti, sono caduti i confini politici e gli schemi sono saltati. Ora l'epopea della rivolta nobilita ogni episodio, esalta ogni protagonista: ritrovato un accogliente senso comunitario, tutta la città sembra dire ciò che dice Alvaro in « Gente di Aspromonte »: « Finalmente ho potuto parlare con la giustizia. Che ci è voluto per dirle il fatto mio ». Reggio non è più quella di una volta e non è più quella elei moti. E' cresciuta: legge quasi il doppio dei giornali che leggeva tre mesi fa, consuma un gran numero di libri, discute, partecipa, è informata; ed è dura. Che cosa siamo? Il capoluogo è adesso solo un simbolo: non vale di per sé, vale perché è una cosa certa', un riconoscimento, la prova che la città esiste e che esiste qualcosa di più forte dei « grandi » della Regione, dei nuovi «viceré» che si spartiscono per le loro clientele e le province protette ciò che lo Stato affida alle loro mani. E' un sentimento comune e corale, che coinvolge i professionisti e il clero, i negozianti e i disoccupati. Il rifiuto sarebbe una punizione, e la punizione di Reggio sarebbe la vittoria delle clientele e dei « viceré ». La rivolta, nata da un moto' di rabbia e poi caduta in mano all'estrema destra, reclama adesso il frutto del rifiuto del vecchio mondo: « Cos'è Catanzaro? E' una città abbarbicatp sui monti, che vive Cji burocrati e che difende' ciò Che rimane della Calabria arcaica ». Ma cos'è "Reggio'.' Ofa soltanto slséorgono le ragioni profonde della rivolta, ora le capiscono; ed è peggio. I primi a presidiare le barricate furono i ragazzi, ed erano in gran parte figli di emigranti. I figli degli emigranti degli Anni Cinquanta hanno adesso quindici, diciotto, vent'anni. Hanno Disio qual è la sorte di una donna che deve attendere, coi propri bambini, le rimesse del marito lontano. Non vogliono emigrare. Poi, sulle barricate, andarono le donne, dicevano ai ragazzi: « Resistete, non dovete lasciarci». Si mossero gli operai dell'edilizia, la sola vera industria della città. Venivano dai sobborghi della città e dalle campagne vicine, ultima retroguardia del sottoproletariato italiano: furono essi che vollero, quando i moti si facevano più gravi, che la Madonna fosse portata in processione. Sono scesi negli anni scorsi dalle montagne, ormai spopolate, seguendo quasi le grandi alluvioni, ed hanno lasciato un mondo chiuso e cupo, ma non ne hanno trovato un altro: Reggio è una città di consumo che non produce, la sua. modernità è fragile e di pura imitazione, non assorbe, non integra, non dà sicurezza a chi la raggiunge dall'interno attratto dalle « luci della città ». Il lavoro che dà è incerto e mal pagato. Gli edili si sforzano di conservare un legame con la terra; vanno, quando possono, a lavorare i campi per conto terzi o degli amici, e spesso cominciano al tramonto: li chiamano i « chiaridiluna ». Sono, all'estremo Sud, gli uomini più smarriti d'Italia. La centrale rossa Il resto è fatto delle vittime di illusioni perdute: cinquemila commercianti per una città poverissima che già temevano la crisi: in agosto i protesti e i fallimenti dovevano esser più numerosi di quanto siano mai stati. Impiegati, duemila vigili urbani (la più alta proporzione in Italia), fattorini, commessi: ovunque troppi, ovunque trattati male. Il loro dramma è il dramma di un minimo di prestigio, il loro bisogno è di contare qualcosa, e devono tutto a tutti. E' crollata negli ultimi anni la pìccola e la media borghesia professionale, che non riesce più ad integrare i proventi della professione col reddito di un po' di terra. Insieme con Napoli, Reggio è la città che Iva il maggior numero di pensionati per invalidità. Solo adesso, dopo l'ubriacatura delle barricate, la città vede che la sua era la rabbia di una società disgregata, senza più valori certi e senza prospettive. Da alcuni anni, quando partono, i disoccupati partono in gruppo, impegnati ad aiutarsi l'uno l'altro, come schiacciati da un grande senso d'insicurezza. I comunisti ora fanno l'autocritica: non avevano tenuto il conto dei disoccupati diplomati e laureati, che sono un terzo di coloro che non hanno lavoro. Ora le sinistre indagano sul quartiere dei ferrovieri, che ospita più di quattromila persone ed è la centrale rossa di Reggio: perché i ferrovieri si ribellarono alle consegne della Cgil, perché restituirono le tessere del partito comunista, perché non ostacolarono la caduta verso il qualunquismo di destra dei moti? Il quartiere dei ferrovieri brulica di drammi umani: tutti, quasi senza eccezione, i figli dei ferrovieri che oggi hanno vent'anni sono diplomati o laureati. Come per i figli degli edili, come per i figli dei contadini appena inurbati, il titolo di studio, conquistato con sacrificio, è l'unica speranza.diiriscatto. Un prò-' fondo senso d'insicurezza porta i diplomati e i laureati figli di ferrovieri ad aspirare a un posto nelle ferrovie: per conservare la casa del padre. Il mito del quinto centro siderurgico s'è diffuso ed è caduto in poche settimane. Sarà in finizione tra molti anni, richiederà mano d'opera qualificata e darà al massimo diecimila posti di lavoro per tutta una vasta zona. Non alimenta illusioni, non fa nascere speranze. Ma più forte è una specie dì rifiuto d'entrare nella vita di fabbrica, che' è tutta estranea e non è una cosa « certa »: poche fabbriche sono sorte, spesso son fallite, assumono i protetti dei potenti e licenziano sempre, ogni giorno. La borghesia degli affari chiede non un grande centro di produzione, ma molte piccole e medie attività, chiede finanziamenti per lavori pubblici e fabbriche tradizionali. « 11 calabrese tiene ai valori umani, non è fatto per i grandi complessi alienanti », invoca quale pretesto. I disoccupati, i sottoccupati, i figli delle raccoglitrici di gelsomino (190 lire il chilo, per fare un chilo occorrono diecimila fiorellini, e si colgono di notte, quando sono freschi e hanno le corolle aperte) ora inseguono un mito nuovo, il mito del « Terzo mondo meridionale: « Troppo grande è la differenza col Nord; per vivere qui non occorre il culto del denaro ». Tutto insieme, il rifiuto di emigrare, il bisogno di affermazione attraverso il titolo di studio, la paura della fabbrica creano, dopo le barricate, un nuovo sentimento dominante: « Vogliamo mangiare pane e cipolla, ma non farci ancora ingannare e distruggere ». «Cafoni» in città II sindaco Battaglia difende Reggio Calabria per le sue prospettive di avvenire, parla del ponte sullo Stretto di Messina, della metropoli moderna che sorgerà all'estremo Sud d'Italia; ma è già più forte la « cultura della povertà », quella che, secondo gli antropologi, si manifesta con l'indifferenza al denaro e significa che la povertà non è relativa, ma assoluta. Ora ogni intervento positivo può diventare un elemento di frattura, può acce¬ lerare la disgregazione: ci sono alle porte di Reggio gli abitanti di Africo, trasportati sulla costa dal loro antico villaggio travolto dalle alluvioni: non hanno terre da lavorare e non vogliono entrare in fabbrica. Giunsero a centinaia per innalzare le barricate, attendono i nuovi eventi. Così, fuggendo dal mondo secondo l'antica tradizione mistica della Calabria vecchia, e reclamando di vivere in un mondo più sicuro, la città vive esaltando l'epopea delle barricate per vincere l'incertezza. Non più la rabbia, ma il bisogno di esistere. Lunghe, minuziose sono le documentazioni sui torti subiti da Reggio, dettagliati i confronti con Catanzaro e Cosenza. Sorgono nuovi « comitati », si succedono i giuramenti. Non c'è più la sinistra, non c'è più la destra. Una campagna lanciata per l'adesione alla lotta a oltranza per Reggio capoluogo ha raccolto in pochissimi giorni già quindicimila firme. Circola anche un'altra parola d'ordine: « In un secolo quattro Calabrie si sono sparse nel mondo. Rimanete a Reggio, occorre salvarla ». Sono le donne a diffonderla, mentre i diversi comitati cercano una via d'uscita e le sinistre temono il giorno in cui saranno liberati dal carcere i leaders di estrema destra, tribuni come Ciccio Franco, esperti nella guerriglia urbana, mestatori capaci di volgere in « jacquerie » ogni protesta. La calabresità Non è giunto un segno concreto di presenza dello Stato, non una promessa convincente. Solo vengono le notizie di Catanzaro che irride allo « scarso grado di calabresità » dei reggini, e di Cosenza che di fronte alla tempesta pensava di superare i problemi ospitando nel proprio stadio un incontro di calcio tra Reggio e Catanzaro « per ristabilire i rapporti umani ». Giungono le notizie di esponenti democristiani che si dichiarano solidali con Reggio a Reggio, esortando a resistere, ma proclamano il diritto di Catanzaro al rango di capoluogo, se parlano a Catanzaro. Vengono fatte circolare notizie di intenzioni « punitive » per la città che ha protestato e ha « mancato di rispetto » ai grandi della Regione. C'è la crisi, chiudono i negozi e l'industria dell'edilizia è ferma: ì fondi stanziati in passato non giungono ancora, la mafia si serve dell'usura per volgere a favore della propria forza la crisi, quattromila maestri hanno partecipato a un concorso per 28 posti e il sindaco Battaglia, ieri leader della città, oggi è discusso perché troppo arrendevole: i giovani preti, gli studenti, le destre estreme, gli edili già 10 contestano. A un parroco che invocava, nella chiesa di Santa Caterina, « nuovi cieli, nuove terre» secondo 11 versetto del Vangelo, le donne presenti risposero: « Nuova terra e nuova vita, padre ». Ma non ci si aspetta più niente. L'ultimo mito è quello della sfida: « Parte da Reggio la rivolta del Sud ». Michele Tito Reggio Calabria. Dimostranti incappucciati, alla maniera del Ku-KIux-Klan. durante la rivolta della scorsa estate (Foto Team)

Persone citate: Battaglia, Borboni, Ciccio Franco, Jacini, Mancini, Michele Tito, Misasi, Pucci