In quell'Italia di faccetta nera di Nicola Adelfi

In quell'Italia di faccetta nera In quell'Italia di faccetta nera (Dal nostro inviato speciale) Venezia, 13 novembre. Un senso inconscio eli colpa per quel clic gli facemmo trentacinque anni fa? Semplice curiosità? Un sentimento ili tenerezza, anch'esso inconscio, per il saggio e fragile vegliardo? Chissà... Forse tutti questi clementi vanno mischiati ad altri più difficilmente individuabili per spiegare come mai il Negus sia stato accolto dagli italiani con manifestazioni di simpatia di gran lunga superiori a quelle riservate di solito ai capi di Stato che visitano il nostro Paese. Mettetela come più vi piace. Resta il fatto clic da Roma in su, via via fino a Venezia, il Negus è passato in mezzo agli italiani circondato da uri alone di sincera amicizia. Non parlo solo delle città. Tante e tante volte ho visto gruppi di persone sostare in cima a viottoli di campagna nella speranza di scorgere, sia pure per un attimo, il Negus che viaggiava sul treno presidenziale. Quasi sempre nelle città quelli clic più premevano contro i cordoni dei carabinieri per aprirsi un varco verso il corteo dell'Imperatore avevano i capelli grigi o bianchi. E ai carabinieri che cercavano di spingerli indietro, dicevano: « lo sono stato ventitré anni in Abissinta »; « lo parlo Vamarìco »; « Io ero laggiù prima della guerra »; « lo lavoravo a Gondar » oppure nel Tigrai, nella Dancalia, sul Lago Tana* nello Scioa. tra i galla sidamo. * * Io. io. io... Un gran tuffo nel passato, quando si era giovani e spensierati; un contuso all'oliarsi di voci, di ricordi, di nostalgie; ma senza più astio o rancore, depurati da quel gran donatore di oblio clic c il tempo. Un tuffo nel passato vissuto di persona o sentito raccontare dal padre, dal nonno, andato laggiù, tanti anni fa, a cercare un lavoro e la fortuna in luoghi e tra genti così diversi dai nostri. Anch'io ricordo bene quei tempi. E sempre mi tornavano alla mente nei nove giorni che sono stato accanto al Negus. Trcntacinque anni fa gl'italiani vennero letteralmente abbacinati e storditi. Mai più come allora Mussolini si rivelò un così abile venditore di tappeti. Davanti agli occhi di un popolo povero, pieno di disoccupati e di sottoccupati, con l'abilità di un prestigiatore agitò di qua c di là il tappeto abissino facendolo apparire come l'Eldorado che avrebbe messo fine a tutte le nostre miserie e tribolazioni. Ne inventò di tutti i colori. Emeriti professori di università, giornalisti e conlerenzicri rionali gareggiavano nel vantare le risorse dell'Etiopia. Un professore di geografia del la « Cattolica » di Milano scrisse che quasi dappertutto nelPAbissinia si trovavano « mandarle quarzitiche con pagliuzze d'oro ». I ragazzini etiopi ci giocavano come tanno i nostri con le bilie. Bastava dunque andare laggiù per riempirsi le valigie di quelle preziose « mandorle ». Un altro illustre professore della stessa università confermava che «l'oro sembra essere in Abissinta il minerale metallico più largamente diffuso ». Sempre lo stesso professore, con tutta la sua autorità di scienziato, disegnava questo quadro delle altre risorse minerarie: per il platino «.l'Etiopia è da mettersi al quinto pasto nella produzione mondiale n; il ferro, « frequente e abbondante, potrebbe fornire almeno un milione di tonnellate annue di ottimo materiale»; il rame « è presente in diverse zone e anche in quantità considerevoli ». Non parliamo poi del petrolio; non laghi, ma vasti mari di petrolio erano stati individuati in diverse regioni, e talora affioravano alla superficie tanto che se ne sentiva l'odore. Bastava dunque scavare piccoli buchi per veder erompere colonne di « oro nero ». Altri professori non volevano essere da meno, e asserivano tranquillamente, documenti alla mano, che l'Abissinia era piena zeppa di porfidi, ametiste, diaspri, agate, manganese, salgemma. Arrivavano di rincalzo gli esperti di agricoltura ed elencavano ciò che gl'italiani, con pochissima fatica, avrebbero potuto trarre dalle campagne abissine: eccellente caffè e tabacco, granoturco, orzo, banane, bovini e ovini, pellami. La terra erti quanto mai fertile, perché non erti stata mai sfruttata dagli indigeni. Di acqua ce n'era .1 volontà e il clima era magnifico. Gl'italiani erano incantati da tutto questo ben di Dio a portata di mano. E poi, c'era da vendicare l'« onta » di Dogali e di Adua dcll'Italietta democratica. Inoltre le aquile imperiali di Roma avrebbero portato la civiltà ad un Paese barbaro. In tutto questo chiasso propagandistico, ad un certo momento, fu immesso un elemento molto sentito dagli italiani: « Faccetta naif». Un noto colonialista scriveva: « Le donne abissine sono generalmente assai belle, le donne più belle d'Africa-»; e poi, con compunta ipocrisia, aggiungeva: « Ma i loro costumi raggiungono il massimo della corruzione ». Gl'italiani, lungi dal rammaricarsene, si agitavano come galletti. I giornali pubblicavano fotografie di adolescenti abissine con appena una striscia di stoffa intorno ai fianchi snelli, c scrivevano che per quei fiori di bellezza fare l'amore era come bere un bicchiere d'acqua. Allucinati dalle « mandorle quarzitiche » e dalle « faccette nere », a nuòto i giovani italiani sarebbero andati in Abissini;!. Mai, né prima né dopo, il regime fascista lu piit popolare di allora. E Mussolini, mentre da una parte faceva baluginare l'Eldorado dietro l'uscio di casa, dall'altra provvedeva ad aumentare la tensione con l'abilità di uno scrittore di libri gialli. Il 10 settembre 1935 diede l'ordine dell'* adunata generale delle for-1 zc del regime ». Non disse in quale giorno l'adunata sarebbe avvenuta. Gl'italiani dovevano però tenersi sempre pronti. Quando avessero udito le campane suonare a stormo, le sirene urlare c i tamburi rullare, allora tutti dovevano scattare e al secondo segnale precipitarsi a casa e indossare la camicia nera; poi raggiungere a passo di corsa la rispettiva sezione del partito per ascoltare la parola d'ordine del duce. Ma quale parola d'ordine? I giornali questo non lo dicevano; e così aumentavano la incertezza e la tensione. Nel caso che mancassero gravi motivi, le assenze sarebbero stale considerate ingiustificate. * * Gl'italiani si misero ad aspettare col cuore trepidante. Fu alle 15,30 del 2 ottobre che le campane suonarono come impazzite, le sirene riempirono il cielo di frastuono ed i tamburi rullarono. Era il preallarme. Due ore dopo scattò l'ordine dell'« adunata generale ». Infine, alle 18.30, Mussolini si affacciò al balco¬ ne di Palazzo Venezia e gli altoparlanti della radio diffusero Imo all'ultimo borgo l'annuncio della guerra. Mussolini disse che contro il popolo italiano si tentava di consumare « la più nera delle ingiustizie: quella dì toglierci un po' di posto ni sole li poi: « Con l'luto pia ubbia ni o pazientato 40 anni! Uni busta! ». Alle 5 del giorno dopo, i tre corpi d'armata di De Bono entrarono nell'Abissinia. In seguito ci fu la storia delie « inique sanzioni ». In realtà non ci procurarono il minimo danno. Gli Stati Uniti, la Germania, il Giappone, la Svizzera ed altri Paesi non facevano parte della Società delle Nazioni e perciò non erano vincolate a ridurre gli scambi con l'Italia. Inoltre era stato deciso che le sanzioni non dovessero includere ii carbone, l'acciaio e il petrolio. Infine va detto che, senza nemmeno salvare la faccia, tutti i Paesi continuarono i loro commerci con l'Italia, come prima o più di prima. Lo fece perfino la « perfida Albione ». Tra l'altro, mandò cento motori « Rolls Roycc » per i nostri aeroplani militari. * * Per Mussolini pioveva sul bugnato. Col pretesto delle sanzioni potè ridurre il già basso tenore di vita degli italiani; e sul piano propagandistico diffuse l'idea che l'Italia con le sole sue forze si stesse battendo eroicamente contro lutto il mondo. In questo clima esaltato si arrivò al 18 dicembre, la giornata del « rito della fede a: gl'italiani diedero gli anelli nuziali d'oro e li sostituirono con anelli di lerro. Si annunciò che solo a Roma le fedi « donate alla Patria s erano state più di 250 mila, e a Milano più di 150 mila. Quanto oro fu così raccolto, non si seppe mai; e ancora oggi si ignora dove andò a finire. Pochissimi anni, poi, bastarono a fare rinsavite gli italiani dall'ebbrezza delle « mandorle quarzitiche » e delle « faccette nere ». Ed eccomi ora qui ad interrogarmi: perché tanta simpatia per la persona del Negus, perché tanti applausi? Complesso di colpa per quel che gli tacemmo? Oppure gratitudine per il modo come protesse gli italiani rimasti impigliati nelle ceneri dell'impero fascista? Sono domande che mi porto appresso da una decina di giorni, senza trovare una risposta convincente. Però, sempre mi viene il sospetto che per molli anziani la presenza del Negus in Italia sia come una specie d'estate di San Martino. Rivivono il tempo in cui erano giovani, si scaldano la fantasia e il cuore con i ricordi di una stagione che lu per loro colma di illusioni, di miraggi e di avvenni re. Nicola Adelfi