Tutto è nulla

Tutto è nulla Il lamento dell'Ecclesiaste Tutto è nulla « Da molto tempo Salomone dormiva con i suoi padri, quando un poeta clic non consegnò il suo nome, lo risuscitò pcr largii pronunciare — chi meglio di quel nome per farle meno crude ai deboli stomachi —' alcune verità assolute sull'esistenza degli uomini ». Con queste parole Guido Ceronetti presenta una nuova traduzione dall'ebraico dell'Ecclesiaste (Einaudi, 1970), il libro biblico che prende il nome dalla traduzione greca di Oohélct clic ne sarebbe l'autore (for^e, sec. Ili a. G.). E' il libro che afferma la nullità del tutto, la ripetizione insignificante degli eventi, l'ignoranza e l'impotenza totale dell'uomo, l'incombenza della morte come fatto ultimo, definitivo, al di là del quale non c'è nulla. Ceronetti l'ha tradotto con accuratezza biologica, ma anche rendendone l'afflato poetico, con una profonda simpatia intellettuale che gli la scorgere del libro la più esatta diagnosi, clic sia mai stata data, della condizione umana c l'autentica morale che si può trarne. E in realtà l'Ecclesiaste non vuol essere un profeta, né il latore di un messaggio, né l'iniziatore di un qualsiasi movimento religioso o politico. Vuol essere ed è soltanto l'osservatore implacabile e cinico, ma non distaccato, dei tratti negativi, .crudeli e insopportabili dell'esistenza umana nel mondo. Non fa differenza che quest'esistenza sia giudicata, in base alle misure comuni, riuscita e felice o misera e disgraziata. Salomone ha avuto dalla vita tutto ciò che si può ottenere o desiderare: case, vigne, giardini paradisiaci, acquedotti, schiavi, mandrie di bestiame, cantori, tesori e un serraglio di spose. Ha ottenuto in Cerusalemme l'autorità e la potenza massima e non si è privato di alcun piacere né ha perduto la sapienza che con sente ai suoi occhi di vedere tutto ciò che vogliono. Ma che cosa è tutto questo? E' mise ria e « fame di vento » perché « non c'è niente che valga sotto il sole ». Dall'altro lato, ci sono le lacrime degli oppressi e la forza degli oppressori, l'invidia, l'ingiustizia, la violenza; ma è miseria anche questo, anche questo è « fame di vento ». Si equivalgono ricchezza c miseria, successo e sconfìtta, male e bene, perché tutto comincia e finisce nello stesso punto: nel nulla. La morte è veramente la sòia certezza di cui l'uomo dispone. Essa incombe su tutta la sua vita con la sua minaccia continua e rende illusorie speranze e progetti. Affaticarsi per ottenere beni, onori e ricchezze non serve a nulla. Coloro per cui ci si affatica possono ilon nascere o morire prima del tempo, e in ogni caso « passati pochi giorni, tutto c dimenticato e la morte verrà per (Iti sa e pcr chi non sa ». L'Ecclesiaste insiste su due temi apparentemente contraddittori. Da un lato, sull'uniformità monotona, e perciò disperante, del corso delle cose. Non c'è nulla di nuovo sotto il sole; quello che accade, o accadrà, è accaduto già infinite volte. Nessun uomo può fare se non cose già fatte, di cui si è perduto il ricordo, come si perderà il ricordo di quelle che si fanno. E' quindi stolto chiedersi perché i tempi antichi erano più felici dei nostri: non 10 erano, come non lo . iranno quelli futuri. L'assenza di novità nel mondo toglie ogni fiducia nel passato c ogni speranza nell'avvenire. Non toglie però il timore. E questo è soprattutto dovuto all'altro carattere dell'esistenza su cui l'Ecclesiaste insiste: la sua fondamentale instabilità e imprevedibilità, pcr la quale nessun uomo sa quale sia la sua sorte, tranne che è simile a quella degli altri e non può mutarla. « Scava una fossa, ci cadrai dentro; abbatti un muro, ti morde un serpe; pietre smuovi, ti colpiranno; legni spacchi, ti ferirai » e così via. 11 pericolo che incombe su ogni azione dell'uomo rende incerta e precaria ogni cosa. Per quanto ogni cosa abbia il suo tempo, e c'è il tempo drdrt i o di nascere c il tempo di morire, il tempo delle lacrime e il tempo di ridere, il tempo della pace e il tempo della guerra, il tempo dell'amore e il tempo dell'odio e così via, nulla può esser mutato e l'uomo non sa quale sia il tempo giusto pcr la cosa giusta: come chi semina non sa qual è il seme buono e quello cattivo, e non può lar altro clic seminare a caso. La morale che si ricava da questa diagnosi è apparentemente epicurea. L'unico bene dell'uomo è il piacere, e soprattutto il mangiare e il bere, ma senza crapula e senza passioni. Un altro bene è la compagnia, cioè l'amicizia, che rende l'uomo più resistente c più forte perché gli è di aiuto. Ma dall'amicizia l'Ecclesiaste esclude la donna che è « amara più clic la morte, fatta di reti, cuore di malefici, mani di catene». Al di sopra di tutto, sta la sapienza, che in primo luogo consiste nell'aprire gli occhi e nel rendersi conto della nullità del tutto: e in secondo luogo, nell'imporrc misura a ogni cosa umana e anche a se stessa. Il troppo zelo fa delirare perché produce sogni e parole che annebbiano. « Non essere virtuoso oltre misura, non volerti oltre i lìmiti sapiente », dice l'Ecclesiaste. Perché « grande sapienza è grande tormento: più intelligenza avrai, più soffrirai ». Ma qui appunto si rivela stridente il distacco tra la morale dell'Ecclesiaste e quella di Epicuro. La sapienza per Epicuro non può aver limiti e non può essere scambiata per uno zelo mal posto, perché è il solo strumento per liberare gli uomini dai timori che li tormentano. E', in primo luogo, lo strumento pcr liberarli dalla paura della morte, per giungere a considerare la morte come un fatto naturale che non è più terrorizzante degli altri. Il pensiero e la paura della morte dominano invece lo scritto dell'Ecclesiaste. La sapienza è per gli epicurei serenità, atarassia e perciò addita nel piacere la liberazione dai bisogni e dai turbamenti che danno. La misura del piacere non è data, agli epicurei, dalla condanna della crapula, ma dal calcolo intelligente che rende stabile il piacere stesso, cioè libera l'uomo dal dolore. E, in fondo, o al principio, sta la differenza fondamentale: per Epicuro, la divinità non fa nulla; per l'Ecclesiaste Dio la tutto o è tutto. Che cosa c;è di veramente religioso in questo vecchio scritto ebraico? Solo la fede in un Dio impenetrabile e lontano, che si può soltanto riverire e temere, e il cui culto consiste nella stessa sottomissione cieca che si deve ai re della terra; di cui non si può pensare o dir male neppure nella più stretta intimità. Non c'è amore possibile né Ira Dio e gli uomini, né degli uomini tra loro; e questo è ovvio. Ma non c'è neppure speranza. Nulla muterà, come nulla mai è mutato: al saggio, come all'idiota, non resta che cogliere l'attimo fuggitivo del piacere, quando il tempo glielo consente. Ma anche il piacere, pcr quanto ridotto alle sue forme elementari, mangiare e bere, non ha consistenza o valore per sé: è il ripiego o l'evasione momentanea da uno spettacolo desolante. Il poema dell'Ecclesiaste ha collo certi aspetti dell'esistenza umana che pochi oggi si sognano di negare: l'instabilità, l'incertezza, la precarietà, le limitazioni di ogni genere. Preso dal complesso del canone biblico, quel poema dà un suono; preso per sé, ne dà un altro: perché lì è solo la variazione di uno dei tanti temi sinfonici. Ma chi lo legga nella forma in cui Ceronetti l'ha presentato, non può sottrarsi alle domande cruciali: come si può credere senza sperare? Come può Dio, che fa tutto, aver fatto, di questo tutto, un nulla? Se il mondo è il nulla di nulla, come può, il suo autore, essere altro che nulla? Nicola Abbagnano

Persone citate: Ceronetti, Einaudi, Guido Ceronetti, Ira Dio, Nicola Abbagnano