La confessione di Tillon di Vittorio Gorresio

La confessione di Tillon I COMUNISTI TRA I "GAUCHISTES,, E IL GOLLISMO La confessione di Tillon Dopo mezzo secolo di milizia nel partito, Charles Tillon ne è stato espulso come eretico - Nel '19 fece insorgere i marinai francesi del Mar Nero, nel '44 guidò la rivolta antinazista di Parigi; ma ebbe il torto di rifiutare lo stalinismo, e per 18 anni subì insultanti censure e processi - Ai dirigenti comunisti non importa che il sistema sovietico sia «una brutta caricatura del socialismo»; pensano che l'obbedienza all'Urss serva a tenere disciplinata la base (Dal nostro inviato speciale) Parigi, ottobre. Settantatreenne, Charles Tillon vanta una milizia rivoluzionaria durata cinquantun anni. Quartiermastro della Marina militare, nel 1919 issò la bandiera rossa al picco dell'incrociatore Guichen, dopo averne ammutinato l'equipaggio, e fece sette anni di lavori forzati in Marocco, alla costruzione di una ferrovia. Per altre sette volte fu in prigione. Nel 1940, al momento dell'invasione tedesca, con Jacques Duclos e Bénoit Frachon fu membro del triumvirato che reggeva il partito nella clandestinità; se Frachon fosse stato arrestato, la direzione suprema sarebbe toccata a Tillon. Durante la Resistenza fu il responsabile militare del partito, come da noi Luigi Longo, a capo dei «franc-tireurs partisans», che erano i maquisards comunisti. Tre volte ministro Fu Tillon a dare l'ordine dell'insurrezione a Parigi nell'agosto del 1944, e dopo la Liberazione fu tre volte ministro dell' Aeronautica, degli Armamenti, della Ricostruzione. Nel 1952, insieme con Yves Farge e l'abate Boullier, fondò il movimento che poi divenne noto in tutta Europa col nome .di « Partigiani della pace ». Nel luglio scorso, due mesi dopo Roger Garaudy, è stato espulso dal partito. Era un fervente staliniano, un tempo; precisa di esserlo stato fino al 1950, e dice di essere disposto a dare adesso conto di tutta la sua vita di militante « senza nulla dissimulare di quello che la mia coscienza mi rimprovera ». Sulla coscienza gli pesa soprattutto la debolezza di una confessione, resa nel 1952 ad un comitato di grandi inquisitori del partito: « Mi interrogavano interminabilmente e registravano su un magnetofono le mie risposte. Ho finito per "confessare". Non c'era niente da fare ed io volevo rimanere nel partito. Ho riconosciuto i miei "torti", ho fatto un'autocritica sfumata, e non mi hanno cacciato ». Si impose la disciplina, si chiuse nel silenzio ritirandosi a Monjustin, un piccolo villaggio abbandonato sui contrafforti del Luberon, nell'Alta Provenza: « Talvolta quando zappavo la terra, mi prendeva l'angoscia. Mi domandavo che cosa mi fosse capitato, perché mi trovassi lassù». Gli era capitato, semplicemente, quello che toc- calia ad uno Slanski o ad un London in Cecoslovacchia. Torture e prigioni a parte, dalla sua storia si potrebbe ricavare un libro e un film identici a quelli di Artur London e dì Costa Gavras, intitolati appunto La confessione. Lo stesso è il caso di Garaudy, che già due anni or sono scriveva in una lettera a Waldeck Rochet, segretario generale del partito: « Ho letto il libro di Artur London La confessione e la sua tremenda testimonianza. Ahimè, io trovo spiacevoli rassomiglianze fra le situazioni che vi sono descritte e quella che mi si crea ». Anche Tillon si ritrova sul medesimo piano, ricordando che quando andava a Parigi vedeva manifesti anticomunisti con la» scritta: « Se Tillon stesse a Praga verrebbe impiccato ». « Disgraziatamente era vero », riconosce adesso. Nel 1956, dopo il XX congresso del pcus, gli venne offerta una riabilitazione condizionata. L'Humanité gli avrebbe dato atto della sua onestà, conferman¬ do comunque che le sanzioni che lo avevano colpito erano giuste; in compenso, Tillon avrebbe dovuto fare un gesto: una sottomissione pubblica per esempio. Fu allora che Tillon commise il suo errore più grave, non tanto perché così finiva di compromettersi personalmente senza rimedio, quanto perché non si rendeva conto di esigere una cosa assurda: cioè che coloro che avevano organizzato il suo processo fossero esclusi dalla direzione del partito. L'errore di Kruscev Faceva insomma, come Garaudy, una questione di gruppo dirigente, un gruppo che avrebbe avuto la colpa di manipolare il partito a profitto proprio. A guardare lontano, è lo stesso errore anche dì Kruscev, il quale credeva di destalinizzare il partito limitandosi a denunciare i misfatti e il temperamento di Stalin. Sono stereotipi troppo facili che non servono a nulla; i gruppi si possono avvicen¬ dare, cambiandosi gli uomini, ma i sistemi rimangono gli stessi, come è del resto necessario in un partito comunista. Dovrebbe saperlo Tillon, che nel 1952 ha « confessato » rendendosi complice del sistema, in qualche modo-, e lo stesso Garaudy potrebbe rimproverarsi di avere votato nel 1961 a favore dell'espulsione di Laurent Casanova, altra vittima illustre del partito. Tutti e due, adesso, hanno scelto la ribellione ed è del giugno scorso un loro manifesto che si intitola: « Non taceremo più ». E' la strada che ha preso Garaudy da due anni, dopo il maggio del 1968, moltiplicando articoli e libri, alcuni un po' affrettati, ottenendo però di farsi ascoltare solamente da nemici e avversari del partito. Le sue denunce hanno avuto successo tra i « borghesi », non certo tra gli iscritti alla sua cellula di Chennevières. Le Radio gli offrono a gara i loro microfoni, la televisione lo ha tentato, Thierry Maulnier, uno scrit- tore di estrema destra, gli ha pubblicamente attestato la sua intiera solidarietà. Quando la cellula di Chennevières lo ha processato nel maggio di quest'anno, a suo favore hanno votato solamente sua moglie e sua figlia. La cellula di Aix-enProvence, che aveva in forza Tillon, gli ha riservato, in luglio, un trattamento migliore decretando la sua espulsione con otto sì, quattro no e un'astensione, ma il dibattito che ha avuto corso è stato per lui sgradevolissimo, quasi insultante. Tillon, a sfida, aveva detto che cinquantun anni fa, esattamente quel g: ,rno e in quell'ora, lo avevano cacciato in carcere a frustate per l'affare dell'ammutinamento del Guichen. « Bravo, ci stai parlando di prima del diluvio universale », lo beffeggiò un compagno. « Disgraziati, non sapete niente della storia del partito, né di quella della Resistenza! », rispose il vecchio furioso. « E niente di quella della deportazione! », aggiunse la moglie. Raymonde, già deportata a Ravensbruck. Certo, le storie che interessane oggi i gruppi dirigenti ed i nuovi compagni sono più recenti e più valide per l'attualità e per le prospettive immediate. Riguardano non tanto le imprese personali dei grandi rivoluzionari del passato, quanto la scelta pericolosa che alcuni di essi vengono a proporre per il giorno d'oggi, e cioè la rottura con l'Unione Sovietica. Il partito comunista francese non dovrebbe più rifiutarsi di capire o di ammettere che il socialismo di Leonid Breznev non è che una brutta caricatura del socialismo, sostengono Tillon e Garaudy. Bisogna quindi liberarsi dell'Unione Sovietica, dare al comunismo francese un volto più.umano e più occidentale, renderlo più civile e più colto, reclamano altri intellettuali presuntuosi. «La nostra croce» Ma non è tanto semplice. Per le masse la Russia rimane ancora, come sempre si è detto fin dai tempi antidiluviani di Tillon, la patria del socialismo. « Ahimè, si deve ammetterlo — sospirano alcuni comunisti responsabili, anche del gruppo dirigente — è la nostra croce e la dobbiamo portare perché non possiamo farci nulla ». Vero o non vero che sia, sembrano convinti della loro impotenza. Per mezzo secolo la vera forza dei comunisti è stata che il regime da loro preconizzato aveva la credibilità delle idee realizzate in una precisione di tempo e di luogo. Rompere con il Paese dei Soviet può essere una tentazione di esorcizzare i fantasmi e i demoni dell'assolutismo burocratico; ma sarebbe anche il ritorno all'utopia, non si avrebbe più una seconda patria, un paese rifugio, una terra promessa. Il comunismo occidentale, questo povero orfano, resterebbe indifeso in una strategia planetaria che procede fra contrapposizioni di blocchi. Qualche partito ne ha già fatto l'esperienza, uscendone stritolato. Quello greco di Manolis Glezos e Mikis Theodorakis: ad esso Mosca preferisce il gruppo minoritario di Kostas Koliyannis, che ha solennemente approvato l'invasione della Cecoslovacchia. Quello spagnolo: il suo segretario generale Santiago Carrillo ha proclamato il proprio diritto a non tacere quando l'Unione Sovietica sbaglia, ma il ministro degli Esteri di Franco, Lopez Bravo, è stato ufficialmente ricevuto a Mosca. Quello finlandese: face¬ va parte di un governo di coalizione a Helsinki, ed ha condannato l'intervento sovietico in Cecoslovacchia; ne è seguita una scissione ad opera di una corrente stalinista manovrata da Mosca, e alle prime elezioni si è dissolto. Un'altra sconfitta elettorale ha sopportato il partito svedese, che aveva condannato i fatti di Praga; invece il piccolo partito lussemburghese, che li ha approvati, ha guadagnato voti che non sognava di ottenere. Il pcf fa i suoi conti elettorali, anche in vista delle amministrative della prossima primavera. La sua dipendenza da Mosca gli preclude la penetrazione in un settore che comunque non riuscirebbe a conquistare, per ben altri motivi; gli assicura però il mantenimento della presa nei settori che gli sono tradizionali e che non si scuotono in conseguenza dei misfatti sovietici. Se uscisse dal suo terreno, andando verso l'ignoto, si troverebbe costretto a combattere su due fronti, contro i «gauchistes» da una parte, e contro la nuova opposizione che immancabilmente gli susciterebbero gli stalinisti duri a morire, dall'altra. Preferisce buttare a mare qualche ribelle come Tillon, e un intellettuale di più, anche se di gran fama, come Garaudy. In tutti questi anni ne ha già sacrificati tanti, senza averne gran danno, che non si fa arrestare dagli scrupoli. Vittorio Gorresio —-» , — —— n n in i ni ii i«MM«PBMI^^^M Parigi, maggio 1970. Un'immagine dei gravi scontri nel Quartiere Latino tra ( « gauchistes » e polizia (Foto Farabola)