La riforma a metà di Giorgio Fattori

La riforma a metà LA JUGOSLAVIA SI PREPARA AL "DOPO TITO,, La riforma a metà I contrasti delle nazionalità esasperano le contraddizioni del sistema economico, incerto tra il centralismo di Stato e l'autonomia delle imprese - Le regioni « ricche », forti di industrie attive, non vogliono essere sacrificate allo sviluppo delle Repubbliche povere, né pagare il passivo delle troppe « aziende invalide » - Per qualunque successore di Tito sarà arduo trovare un compromesso (Dal nostro inviato speciale) Belgrado, ottobre. Qualche settimana fa il presidente Tito venne invitato all'inaugurazione d'uno stabilimento di elettrodomestici in Croazia. Corteo ossequioso di funzionari, illustrazione dei moderni impianti, sorpresa di Tito per una così rapida realizzazione: « Pensare — sottolineò con enfasi un dirìgente — che qui c'èra solo uri campo di granturco ». « E chi ti dice, compagno, che do.potutto non fosse meglio lasciare il granturco? » ribatté flemmatico il Maresciallo. L'episodio inquadra abbastanza bene il momento dell'economia jugoslava, ventanni dopo la legge sull'autogestione e a cinque anni dalla svolta altrettanto cruciale della riforma che ha sottratto le industrie a qualsiasi controllo dello Stato. Continua l'euforia per la nascita di nuove imprese che trasformano la nazione, ma sale l'allarme per un accavallarsi d'iniziative non sempre redditizie e molte volte in disordinata concorrenza regionale. Le incertezze politiche del momento — con gli interrogativi del « dopo Tito » — sono alimentate da questa complessa situazione economica. La riforma del '65 ha galvanizzato la produzione, contenuto i disoccupati (che tuttavia sono ancora 350 mi- la, e si aggiungono ai1700 mila sottoccupati nelle campagne), alzato il tenore di vita, migliorato i manufatti per la spinta della concorrenza industriale. Non ha però eliminato, com'era invece nei programmi, le «fabbriche invalide», pesante eredità degli anni di burocrazia centralista. Chiudere le 1800 aziende passive — su quattromila in esercizio — significherebbe mettere in strada quasi la metà' degli operai jugoslavi e trovarsi di fronte a nuove minacce di marce su Belgrado, com'è accaduto con i minatori in sciopero della Bosnia. Crisi di capitali Perciò lo Stato pesca dalle industrie attive (nelle repubbliche ricche) per aiutare quelle zoppicanti (quasi tutte in Serbia e nelle repubbliche povere). I prelievi federali e comunali sui profitti si aggirano sul 40 per cento e le industrie che pagano si lamentano: vorrebbero disporre d'una quota maggiore dei loro guadagni per reinvestire negli impianti. La crisi di capitali è cronica e da qui la polemica nazionalista contro le banche serbe e le violente gelosie fra le repubbliche. Sì accusa Belgrado di ridistribuire il fondo statale comune con criteri più politici che economici, perpetuando gli sperperi delle fabbriche passive e bloccando lo sviuppo di quelle che puntano a raggiungere un livello di concorrenza internazionale. La legge rivoluzionaria che ha socchiuso le porte al capitale straniero sinora non ha reso quasi niente. Lo Stato non può garantire gli investimenti in aziende autonome dal potere centrale e molti operatori economici riluttano a correre un rischio Capitalista in un paese comunista. L'amichevole accoglienza a Nìxon ha avuto anche l'obiettivo di persuadere, attraverso l'ospite, l'industria americana a investire dollari in Jugoslavia. Sembra che qualche promessa ci sia stata, ma intanto continua la caccia al tesoro nelle casseforti di Belgrado. « E' un'illusione dura a morire — dice Frane Barbieri, direttore di Nin, il più importante settimanale politico jugoslavo. — Nessuno vuol rassegnarsi all'idea che le grandi ricchezche nascoste non esistono e che la sola ricchezza del paese è quella prodotta dal lavoro ». Le repubbliche ricche vorrebbero tuttavia vederci chiaro nei soldi ingoiati dalle regioni depresse, molte volte sprecati (affermano) per inaugurare piscine ricche di marmi, fastosi palazzi di rappresentanza, complessi industriali in contraddizione con le esigenze di mercato. E' giusto, dicono in Croazia, che dobbiamo contribuire alla costruzione d'una fabbrica di alluminio in Montenegro, in concorrenza con le. nostre? E' giusto, dicono in Slovenia, che lo Stato ci rifiuti il finanziamento di un'autostrada, infrastruttura fondamentale per il nostro sviluppo, dirottando i soldi del fondo comune in Macedonia per sovvenzionare imprese locali ambiziose e scervellate? I cantieri di Fiume Una polemica che riassume la situazione è quella dei cantieri navali di Fiume. Lavorano a pieno ritmo, ma non riescono ad essere attivi perché noti hanno capitali per aggiornare tecnicamente gli impianti. Per quadrare i bilanci mantengono le paghe basse e gli operai migliori emigrano all'estero. I cantieri navali, affermano i dirigenti di Zagabria, sono una ricchezza della Repubblica e della Federazione: potrebbero modernizzarsi e ingrandirsi se la valuta estera che incassano non finisse, via Belgrado, a tenere artificiosamente in vita molte fabbriche serbe o qualche inutile acciaieria fra le montagne del Sud. Le repubbliche povere hanno i loro argomenti di risposta. Producono materie prime a prezzi bloccati dallo Stato, mentre le imprese industriali, per pagar meglio i loro operai, tendono ad aumentare i prezzi dei prodotti per il mercato interno. Si rinnova così un'accusa tradizionale che accentua le rivalità fra le regioni: il Nord si arricchisce a spese del Sud. Rialzo dei prezzi e spinta inflazionistica, ha detto nei giorni scorsi V presidente dei sindacati, hanno dimezzato il tenore di vita di una larga percentuale di lavoratori. Mentre alcune categorie privilegiate guadagnano sempre di più (e danno a Belgrado e Zagabria un'aria di società quasi opulenta, con le file di automobili e le vetrine gremite di merce di tutti i paesi), nelle repubbliche povere, ma anche in centri industriali di Serbia e Croazia, si comincia ad avvertire una dura stretta economica. Secondo il capo del governo federale Ribicic, a cui peraltro nessuno dà retta, se non si correrà ai ripari scoppieranno pericolosi disordini. 11 Piano attende Ma le contromisure sono difficili. Si aspetta da mesi il varo del « Piano di orientamento » 1971-75 che potrebbe almeno frenare il moltiplicarsi delle industrie operanti nello stesso ramo e che non sanno più a chi vendere (l'anno prossimo si produrranno un milione e duecentomila elettrodomestici, mezzo milione di soli frigoriferi: ma il mercato cittadino è già abbastanza saturo e nelle campagne del Sud manca ancora l'elettricità). Nessuna repubblica appare disposta a sopportare sacrifici e ad accettare limitazioni nella sua autonomia industriale. Il piano è bloccato e i managers delle industrie condizionano ì dirigenti del governo e di partito. I «gruppi formali di potere», cioè gli «staff» di tecnocrati delle aziende più prospere, sono la nuova clas-' se che ha sostituito nel comando quella dei burocrati centralisti degli Anni 50 denunciata da Gilas. La Presidenza collegiale, con Tito al vertice, tenterà adesso di coordinare le iniziative e ridurre gli squilibri sociali denunciati con violenza dalla sinistra del partito. Non sembra però molto semplice frenare le spinte centrifughe nazionaliste che riducono ormai a puro simbolo la solidarietà federale. Croazia e Slovenia mettono lo Stato centrale di fronte alla vera alternativa della nazione: o credere sino in fondo in un'economia a frontiere aperte, intensificando gli investimenti nelle zone fortemente industrializzate per reggere il confronto con l'estero; oppure isolarsi di nuovo dal mondo, aspettando che le repubbliche sottosviluppate crescano. « Per realizzare come col vecchio sistema centralista l'eguaglianza nella po¬ s vertà » commenta con ironia un ingegnere sloveno. Il « dopo Tito » è già incominciato anche per questi scontri d'interessi, che lasciano prevedere più profonde lacerazioni nell'eventualità di una crisi politica. Slovenia e Croazia potrebbero cedere alla tentazione di fare da sole « anche se — osserva Frane Barbieri — nessuno è ricco se non ci sono i poveri, e la Slovenia da sola sarebbe una Svizzera sottosviluppata ». Il difficile matrimonio jugoslavo fra il centralismo di Stato e l'autonomia delle imprese potrebbe tuttavia concludersi con qualche pjccolo, drammatico divorzio per la spinta nazionalista, che esaspera problemi, in fondo scontati, di un tumultuoso sviluppo. Un Paese vitale Non è che le cose vadano peggio di ieri; solo che adesso la gente è più libera di protestare e gli oppositori nel partito non vengono liquidati neppure sul piano politico. E' una verità da tenere presente nel valutare le voci confuse, discordi, anche drammatiche, che s'incrociano in Jugoslavia. L'autogestione, dopo faticosi assestamenti, ha distrutto i centri tradizionali di potere e dato ai « Consigli operai » la responsabilità e la libertà, com'era negli obbiettivi della federazione. La riforma, con molti errori di fretta, ha provocato assai meno scompensi che le « fabbriche politiche » degli anni del dopoguerra e restituito alla nazione uno slancio di vitalità. I contrasti fra le repubbliche hanno radici lontane nella storia: ora che sono tutti allo scoperto, sarà forse più facile correggerli ristabilendo una cauta politica unitaria. Questa è almeno la speranza degli uomini che preparano il « dopo Tito » con un obbiettivo cruciale: salvare la Jugoslavia da un'esplosione nazionalista che potrebbe ripercuotersi, con molte incognite politiche, in tutta l'Europa. Giorgio Fattori

Persone citate: Frane Barbieri, Gilas