De Gasperi, no al Concordato di Vittorio Gorresio

De Gasperi, no al Concordato DIECI LETTERE DEL '29 PUBBLICATE DA MARIA ROMANA De Gasperi, no al Concordato Quando le scrisse a due sacerdoti trentini, era uscito dal carcere e attendeva un impiego alla Biblioteca Vaticana: Pio XI esitava per non spiacere a Mussolini - Approvò il Trattato, documento di pace religiosa; non poteva « aderire con il cuore alla collaborazione del Concordato » - Era un successo pratico, affermò, che la Chiesa « pagherà più tardi, perdendo le grandi masse operaie » - Gli dispiaceva « la faccia trionfale dei clerico-papalini » Roma, ottobre. Già si sapeva che a De Gasperi il Concordato del 1929 tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica non piacque. Il trattato che fu allora concluso, contestualmente, per la liquidazione definitiva della cosiddetta « ques'.ìpne romana » — e che costituiva una storica conciliazione fra il Regno d'Italia, « usurpatore », e la Santa Sede spossessata dei suoi domini temporali — riempì invece di gioia il suo animo di cattolico osservante e di cittadino integerrimo. Con una riserva, comunque: egli non avrebbe voluto che nel patto di conciliazione fossero inserite clausole finanziarie, a indennizzo di perdite subite dalla S. Sede. Idea e milioni « L'unico guaio sarebbe se il Vaticano accettasse dei milioni; nella presente situazione sarebbero un cattivo pretesto! Me. non lo faranno, anche se fosse vera l'offerta! » Questa è l'ottimistica conclusione di una sua lettera a don Simone Weber, priori! di San Martino in Trento, scritta il 21 gennaio 1929, tre settimane prima della firma dei Patti Lateranensi, in un momento in cui ne circolavano disparate voci di anticipazione. Altre nove sue lettere di quell'epoca indirizzate, oltre che a don Weber, a don Giulio Delugan, assistente ecclesiastico della Federazione trentina della gioventù cattolica, compaiono ora in un volumetto edito dalla Morcelliana di Brescia, a cura di Maria Romana Catti De Gasperi e di Giacomo Martina (Alcide De Gasperi, Lettere sul Concordato). De Gasperi era allora alla ricerca d'un posto di lavoro che gli permettesse di mantenere la famiglia, dopo essere stato dimesso dal carcere fascista. Il prefetto della Biblioteca Vaticana, monsignor Giovanni Mercati, poi cardinale, gli aveva prospettato la possibilità di « un posticino in biblioteca », roba da poco come ufficio e come rendita, ma che gli avrebbe permesso di integrare il reddito magro delle traduzioni dal tedesco cui si era accinto volonterosamente. Tutto restava però in sospeso, anche perché Meróati avrebbe dovuto parlarne direttamente col Papa, e non riusciva ad averne l'occasione: « Ben altre cose si macinano, che il mio povero granello di miglio », scriveva rassegnato De Gasperi il 10 febbraio a don Giulio Delugan, e aveva netta la sensazione che proprio per il fatto degli accordi lateranensi Pio XI stesse in guardia per non apparire un protettore di antifascisti. Il dittatore avrebbe potuto aversene a male. D'altro canto Pio XI, a giudizio di De Gasperi, non era uomo che fosse in grado di valutare appropriatamente il fascismo. Scrive De Gasperi a don Giulio Delugan il 28 marzo 1929 che il Papa aveva ricevuto un conoscente comune, il quale si era fatto eco di varie perplessità diffuse tra i cattolici in seguito al patto di alleanza tra la Chiesa e il fascismo. E allora il Papa « a proposito del fascismo, ricordò quello che il Manzoni dice del crepuscolo: luce ancora incerta e imprecisa, a cui non si sa in un certo momento che cosa segue ». Che un Papa prenda una decisione in uno stato di così poetica incertezza è cosa per lo meno sconcertante. Di più, avanzando ancora sui sentieri della poe•sja, Pio XI aveva anche ricordato certi versi- del Metastasi per dire che bisogna cogliere il momento favorevole, anche se il futuro rimane incerto. Unica remora, secondo quanto sembra, sarebbe stata per il Papa l'impressione penosa che egli ricevette alla notizia che improvvisamente era morto il consigliere di Stato Domenico Barone, principale negozia¬ tore del Concordato da parte italiana: « Fummo per lungo tempo perplessi — disse Pio XI — se ciò non fosse un segno della Provvidenza, perché non se ne facesse nulla ». Tra poesia e superstizione. Pio XI cercava dunque le sue strade, con l'aiuto dello Spirito Santo. De Gasperi si trovava dì fronte a lui in atteggiamento critico per motivi che è facile comprendere. L'ora dei potenti In prigione aveva avuto la sensazione che la Chiesa non fosse stata chiamata a raccolta contro la sopraffazione consumata dai potenti: « Avrei potuto sostenere le mie idee con meno accanimento? Lo avrei fatto certo se talvolta coloro-cbS* si dicono cattolici (...) non avessero *-oppo plaudito al successo e non avessero con il loro contegno lasciato credere che la Chiesa abbandonasse i vinti ». Sentirsi uno dei vinti non era pesante, per De Gasperi, quanto invece vedersi abbandonato dalla Cniesa. Ciò gli era più difficile, perché gli costava dover registrare gli errori, sopportare di esservi immischiato, innocente, e tuttavia cercare di comprendere e subire. Cattolico trentino per nascita, educazione, formazione, De Gasperi era arrivato ad un'autonomia e ad un sentimento di responsabilità che non avevano riscontri fra i cattolici romani e negli ambienti della Curia. Come dice benissimo Maria Romana nella sua introduzione, lo spirito d'indipendenza di De Gasperi era appunto dovuto alla sua origine trentina, all'avere egli trascorso la giovinezza in un paese « dove un popolo ordinato e serio aveva saputo superare il lungo governo dei principi vescovi mantenendo una sostanziale serenità di. giudizio in materia religiosa e riuscendo miracolosamente a distinguere la propria libertà interiore dal dovere di obbedienza come cittadino ». Diversi fatti lo turbavano, per quanto riguardava il resto dei cattolici in Italia e gli ecclesiastici di Roma: « Una cosa mi pare assolutamente necessaria: che il clero rinfreschi le sue cognizioni sociali. Ci vogliono anche per il clero dei corsi di istruzione. Non parlo poi dei seminari! ». « La realtà del secolo XX non tarderà a farsi sentire, le grandi masse ricompariranno dietro allo scenario. Auguriamoci che gli uomini di Chiesa non le perdano mai di vista ». La vera Chiesa In tale quadro, il Concordato gli appariva un errore commesso dalla Chiesa di Pio XI, che avrebbe pagato caro l'aver creduto a Mussolini: « Pagherà più tardi, perdendo le grandi masse operaie alle quali non riuscirà più a parlare con un linguaggio credibile. E ancora pagherà in quella parte più preziosa dei suoi figli, negli stessi sacerdoti che resteranno colpiti nel profondo dello spirito quando sarà loro concesso di meditare su quella Chiesa di Cristo nata nella povertà, difesa solo dalla propria fierezza, temuta solo per la propria fede, che camminava invece all'ombra di bandiere che calpestavano i diritti dell'uomo ». Però (ed è sempre questa la conclusione di un cattolico, anche se militante in politica al perseguimento di ideali di libertà democratica) il giorno che fu concluso il Concordato De Gasperi scrisse a don Giulio Delugan: « Siate contenti anche voi, perché è la Provvidenza che ci ha la mano. Se non mette la mano qui in che cosa volete che la metta? ». Puntando più sul trattato di conciliazione che sul Concordato, vedeva il primo come una liberazione per la Chiesa e una fortuna per l'Italia: « Non si poteva esitare e credo che avrebbe firmato, se fosse stato papa, anche don Sturzo ». « Certo, ne guadagna il regime, si rinforza cioè la dittatura che dovrebbe pur essere un sistema transitorio, ed è certo che nascere disgraziati è una disgrazia; ma come figli della Chiesa dobbiamo gioire ». A onore di De Gasperi, comunque, va detto che la sua soddisfazione era soltanto per la chiusura della questione romana, mentre la politica concordataria lo lasciava perplesso. Non mancava comunque d'irridere i troppo facili etitusiasmi: « Poiché nel trattato si discorre di miliardi, i temporalisti più accesi, compresi i gesuiti, portano intorno una faccia trionfale (...). Contenti i clerico-papalini, contenti i fascisti, contenti i massoni, Mussolini è trionfante ». E quando Mussolini parlò alla Camera, il 13 maggio, minimizzando in qualche modo la portata dei trattati. De Gasperi trattò da sciocchi tutti quei cattolici «che manifestarono speranze infantili e parvero prendere delle ipoteche su di un avvenire che a loro non apparteneva. A furia di leggerlo sulle cantonate, gli uomini di Chiesa credettero davvero che le classi dirigenti da ieri ad oggi avessero trasformato la loro coscienza in una adesione spirituale al cattolicesimo. Ora la delusione è amara ». Personalmente, De Gasperi aveva plaudito di cuore alla « pace » vaticana: « Altrettanto più difficile mi riesce di aderire col cuore alla "collaborazione" del Concordato ». La sua preoccupazione principale era che da un matrimonio di convenienza si potesse passare ad un matrimonio di affezione, temendo egli che la Chiesa finisse in questo modo di pagare lo scotto per responsabilità che non avrebbero dovuto essere le sue: « Il Concordato è una cosa e la concordanza è un'altra: se questa verrà raggiunta e quale spirito prevarrà, nessuno può prevedere ». Prevalse - una concordanza sostanziale, come è noto, e da questo succinto epistolario sembra che De Gasperi ne avesse il triste presagio. Come scrive Maria Romana, in queste dieci lettere c'è difatti una qualche rassegnazione, ma ci sono anche gravi dubbi: « C'è soprattutto il timore che questa pace tra Stato e Chiesa venga a turbare gli spiriti migliori al punto di perderli alla stessa fede cristiana, c'è la preoccupazione politica di un rafforzamento del potere fascista in relazione a quest'alleanza e la delusione di un abbandono dei naturati difensori della Chiesa ». E tutto ciò, come sappiamo, è puntualmente avvenuto nei quattordici anni fra il 1929 e il 1943; anzi, qualche residuo pesa ancora. Vittorio Gorresio Roma. Gli hippies nella città del Papa: dialoghi e incontri sulla scalinata della Trinità dei Monti (Foto Team)

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