Prigioniero dei cannibali

Prigioniero dei cannibali L'avventura di un lanzichenecco nel '500 Prigioniero dei cannibali Sugli indiani delle Antille non si è scritto nulla di meglio prima di Lévi-Strauss Hans Staden, « La mia prigionia tra i cannibali, 1553-1555 », a cura di Amerigo Guadaguin, Milano, Longanesi, 1970, pag. 265, lire 3500. Nella bella collaiw, « I cen- \ to viaggi » che Franco Ma- \ renco dirige per l'editore Longanesi è uscita, a quattro secoli e più dall'edizione originale tedesca, la spesso citata (e mai tradotta) Veridica storia e descrizione di un paese di selvaggi, nudi, feroci man- giatori di uomini, situato nel ìmondo America di Inuovo Hans Staden. L'editio princeps di questo singolare documento porta la data del 1557: lo pubblicò a proprie spese, arricchendolo di incisioni ora puntualmente riprodotte, lo Staden stesso, reduce da mirabolanti peripezie sul continente americano. Verso il Brasile Era costui, a quanto è dato ricostruire da lacunosi e frammentari documenti, un | tedesco originario di Homberg nell'Assia, suddito del langravio Filippo il Magnanimo, lo sterminatore di Thomas Mintzer nella guerra dei contadini. Soldato mercenario, invece di provare le proprie virtù guerresche in Europa, Staden preferì imbarcari si come artigliere su un bri- gantino, aggregato alla flotta spagnola diretta nell'aprile del 1550 verso il Brasile, ad insediarvi una colonia: un primitivo e spericolalo nucleo di soldati, artigiani, religiosi, donne e bambini, decisi a trapiantarsi in quelle terre lontane e misteriose. Dopo imprevisti d'ogni genere — non manca neppure il proverbiale arrembaggio d'un corsaro francese — la piccola spedizione, benché mutila e fiaccata, approda all'isola di Sao Vicente, il primo centro abitato portoghese {un^0 la c?sta di s,a",pnau!0 blamo neil inverno del '52, due anni dopo la partenza dall'Europa: Staden, palesemente deluso dall'esito dell'impresa, non trova di meglio che impiegarsi come capoposto in un forte dell'isola, eretto a difesa dalle incursioni dei tupinamba. Erano costoro gli indigeni della bassa Amazzonia, migrati attraverso peregrinazioni ininterrotte lungo la fascia costiera brasiliana, dove avevano dovuto presto fare i conti colle milizie portoghesi. Tra gli aborigeni e i colonizzatori l'odio era sfociato nel sangue: se ne era già reso conto il Vespucci, quando spiegava la ferocia delle tribù locali col desiderio di « vendicare la morte dei loro padri antipasati ». Anche Staden, per sua malasorte, si trova alle prese colla bellicosità degli indios: culenta; improvvisatosi tau maturgo. Staden si conqui sta la fiducia degli ospiti e dilaziona, una volta per tiltte, l'ora del trapasso. Ceduto ad un altro capo tribù, deci samente benigno, Staden verI ra in seguito riscattalo damentre è a caccia nella fo-resta, sul finire del '53, viene catturato da una tribù di lupi e trascinato ferito al loro villaggio, Ubatuba. Subito viene trattato come un candidato al sacrificio: poco o nulla gli vale protestarsi non portoghese, anzi « amico e parente dei francesi », con cui i tupi intrattenevano corduili relazioni. Il grande capo Cunhambebe lo schernisce e gli fa sentire terribilmente vicina l'ora sacrificale. Solo lo scoppio di un'epidemia nel villaggio avrebbe di lì a poco potuto strapparlo ad una morte tanto tru- uiui nave normanna e potrà rientrare in Europa. E' la primavera 1555: cinque anni e durato il terribile incubo; vale la pena di riferirlo per iscritto e « darne notizia attraverso la stampa ». A'asce co.si la Veridica sto-ria, che Staden — secondo la consuetudine devozionale del tempo, tipica di molti scritti di viaggio, anche di parte italiana — atteggia tutta sulla falsariga di un rendimento di grazie al proprio Dio, misericordioso e salvatore. Ma, al di là del proposito edificante, il resoconto di questo soldato, non colto ma assai intelligente, è un referto tutto «laico», di un'impressionante minuzia e lucidità, su altri uomini e altri costumi: il miracolismo vi si insinua disagevolmente, come un elemento pretestuoso e spurio. La cronaca di Staden è insomma profana: la prima parte ha la essenzialità della memoria autobiografica (vi si narrano le traversie che abbiamo appena riassunto); la seconda, di gran lunga la più interessante, è un vero e proprio rendiconto etnologico, folto di notizie e dati, sulla stessa tribù su cui uno dei grandi etnologi del nostro tempo, Alfred Metraux. avrebbe dovuto scrivere, tra il 1927 e il '30, alcuni saggi di straordinario fascino. Sarebbe privo di senso met tere a confronto la relazione di Staden e le ricerche sul campo di Metraux: le separano quattro secoli, e ad un mercenario del Cinquecento non si può chiedere di maneggiare i concetti della moderna antropologìa culturale. Ma, sul piano puramente quantitativo — osserva Amerigo Guadaguin, curatore dell'edizióne italiana — dei tupinamba « non si è detto di più di Staden » da allora a oggi. Buon osservatore Poco interessato alla geografia fisica, indifferente o quasi alla fauna e alla flora, Staden eccelle invece nell'osservazione delle forme sociali e delle tecniche indigene. Lo attraggono molto quelle che Lévi-Strauss avrebbe chiamato le strutture del crudo e del cotto: come i tupinam- ba accendono il fuoco, con quali arnesi spaccano la legna, qual è il loro' pane, come preparano i loro cibi, come si ubriacano: « Essi hanno speciali vasi, per metà affondati nella terra, che usa- no come qui da noi la gente usa i barili per il vino o per la birra. In questi versano li miscuglio, che fermenta da sé e diventa forte. Lo lasciano fermo per due giorni. Poi lo bevono e si ubriacano. E' un liquido denso, nutre anche molto... ». Anche le forme della vita familiare e tribale lo incuriosiscono: quante donne possiede un uomo, come ci si fidanza e ci si sposa. Verso il gentil sesso locale Staden è cautamente rispettoso: e forse sottace d'averne goduto i favori, giacché i tupìnamba usano mettere a disposizione d'ogni prigioniero una donna « che lo assiste e ha anche rapporti con lui ». I «buoni selvaggi» II tema che ovviamente lo affascina di più — e ne ha ben donde — è quello del cannibalismo. Perché questi uomini, che « fra loro sono molto bonari », trucidano i loro nemici e se ne nutrono? Questo interrogativo, di cui ha rischiato di sperimentare in proprio la tragica ineluttabilità, perseguita Staden. La brama di ricchezza è da escludere (« Non vi è fra loro alcun commercio. E non sanno neppure cosa sia il denaro »); altrettanto estranei gli sembrano la gelosia o il tutto europeo movente passionale (« Fra i selvaggi è costume che uno doni a un altro la donna di cui è stanco».): la crudeltà dei tupi è dunque una dimensione schiettamente interiore, ancestrale, mossa da « grande odio » e da « grande inimicizia »: il tupi all'assalto grida al nemico « con profondo astio »: « Oggi stesso, prima del tramonto del sole, la tua carne sarà il mio arrosto ». Davanti ad una violenza così istintiva e primigenia da rasentare lo stato d'innocenza, Staden non ha parole di condanna. Mentre in Europa i teologi suoi contemporanei disputano dottamente se gli indios siano creature senz'anima, questo soldato di scarsa erudizione ma di sensibilità vigile, tenta piuttosto di comprenderli: « Neppure le bestie che sono prive di ragione si mangiano fra loro, e un uomo dovrebbe mangiare il suo simile? ». La risposta non può venire dalle pagine della Veridica storia; ma è merito non piccolo del lanzichenecco Staden considerare esseri « normali » i propri persecutori, in un'età in cui fu necessaria una bolla pontificùL per affermare che gli abitanti del Mondo Nuovo erano, contro ogni apparenza, uomini « veri ». Guido Davico Bonino *

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