Vecchi uomini per cose nuove di Giampaolo Pansa

Vecchi uomini per cose nuove Città e Regioni Vecchi uomini per cose nuove yp1 Anchi le istituzioni, a non solo le idee, camminano con le gambe degli uomini. Accadrà così per le Regioni: farle muovere toccherà alla ciasse dirigente uscita dalle urne il 7 giugno. Com'è questa classe? Giovane, piena d'idee e di slancio, convinta regionalista, tutta tesa a realizzare un rapporto nuovo fra cittadini e società? Sarebbe bello .rispondere di sì, ma la realtà è un po' diversa. Cerchiamo di capirne il perché. Un passo indietro Cominciamo con un passo indietro e torniamo a prima del 7 giugno, alla fase della formazione delle liste. Era il momento più delicato: bisognava scegliere gli uomini da proporre agli elettori, cioè il « volto » da dare a ciascuna Regione. Quale metodo si è usato, in quasi tutti i partiti? « Lo scontro, il braccio di ferro, la rissa » mi hanno risposto a Milano, Venezia, Bologna, Firenze, Campobasso. Le correnti si sono dilaniate fra di loro; poi — sottoscritti armistizi precari, spesso imposti da Roma — si sono spartite le spoglie, cioè i posti sieuri. La spartizione è avvenuta sulla base della forza numerica di ciascun gruppo o della solidità delle rispettive clientele. Le correnti robuste hanno avuto molti posti, anche se erano prive di candidati di valore; a chi era in minoranza, pur disponendo di quadri efficienti, sono toccate le briciole. Sapere qualcosa di programmazione regionale non è servito a nulla. I presidenti dei Crpe del Veneto, del Piemonte, delle Marche (cito solo qualche caso) non sono entrati in lista. Quello del Crpe emiliano la candidatura l'ha avuta, ma poi è stato abbandonato al suo destino e sconfitto. In Lombardia il psi aveva due esperti di problemi regionali, Ettore Albertoni e Roberto Guiducci, di ottimo livello, ma non legati a giochi di corrente. Il loro partito li ha chiamati in soccorso per preparare in fretta e furia un programma, però non li ha messi in lista. « Perché? » ho chiesto ad un leader socialista. Risposta: « Chi li avrebbe eletti? ». Ho replicato, un po' candidamente: « Il partito, l'appaiato ». Seconda risposta: « Già, l'apparato... » e poi un sospiro. Anche questa volta, in ogni grosso partito, l'apparato, o meglio l'insieme degli apparati delle singole fazioni, si è rivelato un organismo chiuso, gelosissimo custode d'un demanio elettorale ormai frantumato senza rimedio nei vari orticelli di corrente. E tutto ha concorso ad accentuare questa chiusura. Pochissimi sindaci di grandi città sono scesi in lizza per misurarsi con la nuova esperienza regionale. Nessun parlamentare, mi sembra, ha rinunziato al proprio mandato per impegnarsi in questa « prova storica ». Non pochi degli assenti si sono defilati, spinti da un calcolo astuto: * Per cinque anni le Regioni non combineranno nulla. La prima ondata di amministratori si brucerà. Lasciamoli bruciare: nel 1975 spunteremo noi ». Strutture di potere Ad aggravare le cose, il Parlamento ha poi regalato al nuovo ente una legge elettorale tra le peggiori. Congegnata su scala provinciale, essa ha avuto soltanto effetti negativi. Ha favorito le tradizionali strutture di potere (federazioni, enti di sottogoverno, clientele: tutto da decenni è su base provinciale). Ha bloccato i primi, timidi tentativi fatti dai partiti per darsi un assetto organizzativo di respiro più ampio. Ha esaltato il peso delle città maggiori. E in futuro questa legge produrrà altri guai. Primo fra tutti, l'insorgere delle tentazioni campanilistiche che un politico mi ha riassunto così: « Sì, cercherò di lavorare per la Regione, ma senza dimenticare che dovrò poi chiedere i voti alla mia provincia ». Sommati tutti quesd elementi, che liste potevano nascerne? Certo, tranne « punte » isolate, i voti di preferenza non sono stati molti. Si è votato il simbolo, e basta. E' vero: c'erano le tre schede e la paura di sbagliare; però sono indotto a pensare che gran parte degli elettori non si siano riconosciuti nei candidati offerti dai partiti. In questo modo, ad elezioni avvenute, il risultato è quello che gli apparati (organismi per leso itruttura fra i più con¬ servatori) si erano riproposti. Dalle urne è uscita — ha scritto Romano Prodi sul « Mulino » — « una classe politica la meno nuova possibile ». Funzionari od ex-funzionari da promuovere, amministratori locali da cambiare, candidati sconfìtti nelle elezioni generali del 1968 e oggi ili cerca di una rivincita. Quasi tutte facce arcinoto a chi segue la politica in periferia, signori di mezza età sulla scena da anni e non sempre con esili splendidi. Dei 360 consiglieri regionali di Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, Emilia, Toscana e Marche, ben 282, cioè il 789è, sono più che quarantenni. I giovani sono pochissimi. Un ricambio vero non c'è stato. Sono dati di fatto che rendono concreti due pericoli. Uno, il meno grave, è che la Regione venga utilizzata alla stregua d'un « liceo » per politici, con gli allievi migliori che dopo cinque anni sono promossi ed ammessi al Parlamento. II secondo c più grosso rischio è che la Regione diventi una sorta di « cimitero degli sconfitti » o di pensionato per leaders di serie B: gente stanca, bruciata alla vita degli enti locali, che però non si può ancora accantonare. E' una previsione troppo nera? Me lo auguro. Agli amministratori regionali non resta che dimostrarlo coi fatti. Giampaolo Pansa 1111111111 ItIMIIflIIIIIIIIIMirllMllllIIII yp1

Persone citate: Ettore Albertoni, Roberto Guiducci, Romano Prodi