Il segno sul braccio
Il segno sul braccio Il segno sul braccio Nel libro di Clotilde Marghieri, la storia di una insopprimibile vocazione, le memorie e gli incontri in una Napoli ormai perduta Clotilde IMarghieri: « Il segno sul braccio », Ed. Vallecchi, pag. 214, lire 2500. Questo nuovo libro di Clotilde Marghieri, Il segno sul braccio (al quale è andato, in questi giorni, il premio « Villa San Giovanni »), è un libro di memorie autobiografiche, riguardanti un periodo della sua vita intermedio fra quello dell'adolescenza, trascorso lontano dalla sua Napoli, in un collegio della Toscana, e rievocato nel precedente racconto Le educande di Poggio Gherardo (1963), e il periodo della maturità avanzata, dai frequenti soggiorni o « ritiri » nella bella casa vesuviana, argomento del suo libro d'esordio. Vita in villa (1960). In quanto tale, Il segno sul braccio comprende gli anni dal primo anteguerra al secondo dopoguerra inoltrato: ma senza limiti cronologici precisi, che i riferimenti al prima o al poi non mancano, come del resto non mancavano negli altri due libri, e l'idea di un trittico non dovette certo presiedere alla vocazione di narrare, e di narrarsi, viva e irresistibile nella Marghieri fin dagli anni giovanili anche se realizzatasi tardi. Vocazione di cui ella cominciò a prendere coscienza quando, in quel collegio, le fu messa, appunto, al braccio una fascia con la « S » maiuscola (iniziale di « scrittrice»), a premio di un suo componimento letterario; e che in lei nutrì una vera « religione delle lettere », esplicantesi in « appassionati incontri » con i « sacerdoti » di essa, nonché con quelli del culto affine delle arti. II succedersi di questi incontri, che si risolve in una serie di ritratti di scrittori, critici, musicisti di quel periodo, colti sullo sfondo della Napoli Intellettuale o di una Capri ancora agli inizi dell'invasione artistico-mondana, o di scorciate prospettive di Roma o di Firenze; questa successione, attraverso la quale matura quella vocazione, costi tuisce la linea conduttrice del libro. Una linea, peraltro, che non giunge in profondità in quanto ì ritratti, presupponendo o danc'.o per scontata la personalità degli « incon trati », si appuntano sui par ticolari piuttosto che sull'in sieme, sulle loro caratteristi che psicologiche, su certi io ro aspetti o atteggiamenti. Quel che preme alla Marghieri è di richiamare e fissare nelle sue pagine le impressioni, i sentimenti, le rifles sioni suscitati da quei con tatti o frequentazioni, e soprattutto le reazioni di quella sua « religione », che, sponta nea e vibrante, non è tuttavia conformistica, e prima o poi avverte le sfasature o de nuncia le delusioni E 1 ritratti di questi personaggi, da Borgese a Be¬ renson — i due maggiori, e per ragioni diverse, più ricchi di fascino su lei —, da Sibilla Aleramo alla Duse, da Edwin Cerio e Sacha Sologub a Moravia, appaiono disegnati con mano ad un tempo sagace e sommaria, affettuosa, o devota, e pungente. Perché la Marghieri in questo suo recupero del passato non segue — pur rimanendo Proust uno dei suol testi più amati — i modi del memorialismo proustiano. La sua memoria, più che di humour, è intrisa di ironia, che tiene a distanza le persone, le cose, i tempi evocati, quantunque tale evocazione sia piena di trepide implicazioni e di ricorrenti nostalgie. Una ironia che è, anche, autoironia, e che in questo libro vuole essere più vigile che nei precedenti in quanto, trattandosi d'una materia prevalentemente letteraria, più forte è il rischio di cadere in un cer to manierismo. Ma non è detto che II rischio risulti sempre eluso. Donde quell'aria sostenuta che il linguaggio della Marghieri, pur così limpido, qua e là presenta. Vero è che la sostanza più profonda de II segno sul braccio è altra: quella che i libri precedenti trasforma da inventari di ricordi in itinerari verso una memoria che è presenza dei morti nei vivi, promessa o speranza di breve immortalità. E' la stessa sostanza, ma ancor più scavata, ancor più toccante sotto lo schermo di quella ironia. Ad essa fanno capo le parti o pagine più belle del libro, quelle di ricordi non « pubblici » ma familiari: sul defunto zio libertino, e sulle sue varie donne che, nella religione del ricordo, lo mantengono vivo; sul proprio fidanzamento, matrimonio e contrastato inserimento nel clan familiare dello sposo, tradizionalista per quanto lei è incline alla libertà; su donna Isabella, fascinosa pianista, il cui ardore amoroso sembra purificare l'affatturata atmosfera caprese. E, soprattutto, la figura della madre. anche se la sua importanza fondamentale risulta solo al l'ultimo, quando le sparse notazioni sul suo carattere, autoritario e insieme volubile, convergono nell'episodio della profonda modificazione dei suoi rapporti con la figlia, in seguito alla scoperta del comune destino di donne: scoperta cui farà riscontro nella figlia, vent'anni dopo, alla nascita del primo nipote, quella della vera ragione dell'« invadenza » degli anziani parenti nell'intimità dei giovani sposi: la ricerca, nella nuova vita, di quella continuità del sangue, che è garanzia di un « personale infinito ». Il dato autobiografico, che nella parte « pubblica » assume bensì valore di testimonianza storica, ma rimanendo narrativamente alquanto slegato, qui si articola in un racconto di rara, poetica felicità. Arnaldo Boccili
Luoghi citati: Firenze, Napoli, Roma, Toscana, Villa San Giovanni
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