Uomini pubblici americani analizzano il disagio del Paese di Mario Ciriello

Uomini pubblici americani analizzano il disagio del Paese La complessa crisi di sfiducia negli Stati Uniti Uomini pubblici americani analizzano il disagio del Paese «L'America è divisa come non mai», dichiara l'ex presidente della Corte Suprema Warren, secondo il quale « vi sono molte cause della nostra crisi », fra cui la prima sarebbe il problema razziale - Catastrofica opinione del sindaco di New York, Lindsay - Un movente del malessere si spiegherebbe con la «credibility gap» dell'amministrazione Nixon in politica interna, e con il divario fra la realtà e le esigenti attese dei cittadini dal nostro inviato' New York, lunedì mattina. Non è tacile essere americano, di questi tempi. E' un travaglio spirituale che l'osservatore straniero tende o a sottovalutare o ad attribuire ad un'unica causa, sia essa Vietnam od inflazione. E' invece una malaise più profonda, di cui le dimostrazioni, le spara- torie e le morti di questo drammatico maggio hanno denudato solo una parte. Inutile dire, come fanno molti europei, che gli americani « esagerano » nel loro pessimismo. L'importante — insegna la psicologia — non è ciò che uno ha, ma ciò che uno pensa di avere. E, come gli inglesi dopo il fiasco di Suez e dopo la svalutazione della sterlina, gli americani scorgono qpgi ombre e pericoli in qifasi ogni aspetto della vita nazionale. Non è solo l'« uomo della strada » che scuote il capo mestamente. Earl Warren, ex presidente della Corte Suprema, dichiara: « Il Paese è diviso come mai lo fu dai giorni della guerra civile ». Warren, che durante il suo lungo mandato a capo del più alto organo giurisdizionale degli Stati Uniti si era fatto promotore di un'interpretazione illuminata della Costituzione, soprattutto per quanto concerne il settore dei rapporti fra bianchi e negri, ha così proseguito: « Vi sono molte cause della nostra crisi, ma nessuna, io credo, è così fondamentale come la nostra negligenza nel conseguire l'ideale che noi ci ponemmo nella dichiarazione d'indipendenza: " Tutti gli uomini sono stati creati eguali " ». Il sindaco di New York, Lindsay, afferma: « Gli Stati Uniti sono sull'orlo del collasso, psicologico e forse fisico ». Sono le voci di « liberali » esasperati dal rallentamento nei progressi sociali. Ma anche dietro la rettorica di Nixon e del vice-presidente Agnew si odono accenti inquieti. Ed è naturale. Quando Nixon andò al potere disse che avrebbe « unito » la Nazione. Oggi, fatica a tener unito il governo, incrinato dall'intervento in Cambogia e da altri antagonismi politici. La Washington Post riassumeva ieri la crisi: « E' un paradosso. L'America è più ricca e più potente di ogni altra società nella storia del mondo. Non è minacciata da una guerra; non ci sono colonne di affamati che percorrono le vie, come negli Anni Trenta. La violenza non è una novità. Dalla sua nascita, questa Repubblica ha visto, più volte, insurrezioni, atti terroristici e sanguinose battaglie tra poliziotti e dimostranti. Eppure, tutti gli americani hanno oggi un senso di angoscia e guardano al futuro con incertezza. Ovunque si vada, dalle metropoli ai villaggi, le parole dei cittadini rivelano nervosismo e dubbi. Negri, bianchi, poveri, ricchi, liberali, ' conservatori, reazionari sono accomunati dal medesimo stato d'animo ». Passiamo al New York Times, che presentava ieri il primo di una serie di articoli sulla crisi delle c{ttà. Titolo: « La disperazione urbana opprime tutti, dai quartieri di lusso agli slums ». Leggiamo: « Sindaci, studenti radicali, abitanti dei ghetti, uomini d'affari, tutti innalzano le stesse proteste. Ovvero: il governo federale non spende abbastanza per le città, i governi statali assistono indifferenti al declino urbano, tutti i servizi peggiorano >:. A Birmingham, lo psicologo di un ospedale ha scoperto che il 45 "0 dei bambini di famiglie povere, negre o bianche, rispondono: « Talvolta, vorrei non essere nato ». Il sindaco di un « grande centro » dice al cronista: « Non mi presento alle elezioni. Non voglio più questa carica. Non voglio presiedere alla morte di questa città ». La diagnosi è unanime: a torto o a ragione, il paese attraversa una crisi di sfiducia. I giovani hanno sfiducia nel « sistema »; i negri hanno sfiducia nel governo Nixon e in chi lo appoggia: i « liberali » hanno sfiducia nella classe dirigente, nel « complesso militare - industriale »; i businessmen cominciano ad avere sfiducia in Washington: la cosiddetta « maggioranza silenziosa », la piccola borghesia bianca, ha sfiducia in tutto. Il dinamico ottimismo americano — uno dei principali motori di questa <. nazione — ha subito duri colpi, e tutti assieme: la sanguinosa palude vietna- mila, la tenace inflazione, la crescente disoccupazione, l'apparente impossibilità di arrestare l'arteriosclerosi urbana, la nuova tensione razziale. La Washington Post dice: « Tutte le certezze di un tempo sono scosse. Non sembra esservi un rifugio dove sfuggire ai problemi che ci circondano ». La politica interna di Nixon e il nuovo credibility gap hanno contribuito a questo senso di disagio. Ma il fenomeno è più profondo: gli americani stanno scoprendo che non si può risolvere tutto e rapidamente, che il successo non corona sempre ogni impresa. Gli americani chiedono mol to alla vita, Z'expectation è alta, come dicono qui: mag giori, quindi, le delusioni. Ma che la società sia vigorosa, con possenti capacità d'evoluzione, lo dimostra i non tanto quel che avviene quanto ciò che non avviene. Quanti Paesi europei sareb¬ bero sopravvissuti, istituzioni indenni, all'uccisione, in pochi anni, di un John Kennedy, di un Bob Kennedy e di un Martin Luther King? Mario Ciriello Fort Dix. Un pacifista ammonisce ironicamente i soldati, dopo avere infilzato manifestini sulle baionette (Tel. Upi)