Chiedono in nome dell'Arte Povera l'«uccisione» di pittura e scultura di Marziano Bernardi

Chiedono in nome dell'Arte Povera l'«uccisione» di pittura e scultura UN ARDITO MA SPLENDIDO PAMPHLET DI JEAN GIMPEL Chiedono in nome dell'Arte Povera l'«uccisione» di pittura e scultura Se un nostro recente articolo sull'Arte Povera non fosse stato spolpato fino all'osso per i tirannici « motivi di spazio », non sarebbe sparito anche un pertinente accenno alla sconfinata presunzione dell'artista, idolatra di se stesso da almeno cinque secoli, cioè dall'età dell'umanesimo neoplatonico, ed alla «mitizzazione » del fare artistico inteso come « religione » nata con il concetto romantico dell'Arte per l'Arte. Sono i due bersagli delle duecento pagine di Jean Gimpel, Contre l'art et les artistes, apparse a Parigi nel '68 e di cui ora Bompiani ha dato la traduzione italiana col medesimo titolo; uno dei libri più ragionatamente polemici e freddamente temerari pubblicati in questi ultimi anni su una materia esplosiva com'è quella del giudizio estetico. Anzi, più che un libro, un libello di straordinario interesse. Le belle cattedrali Jean Gimpel — autore di uno splendido saggio sui costruttori delle cattedrali dei secoli XII e XIII, i soli monumenti ch'egli salva dalla «immoralità» delle grandi costruzioni del passato: dalle Piramidi e dal Partenone al San Pietro di Roma ed a Versailles — è un uomo coraggioso. Occorre del coraggio per opporre all'esaltazione fatta da Roger Garaudy (1963) del potere quasi soprannaturale di Picasso: « Ha mostrato la possibilità di creare un altro mondo con altre leggi... porta in sé la cultura passata della specie... partecipa al movimento totale dell'universo... i), questa dura condanna: « L'unanime deificazione di Picasso da parte della "intellighenzia " occidentale è una vergogna per la nostra civiltà e attesta il suo declino spirituale ». Perché vergogna? La risposta è implicita nella tesi di Gimpel e ne è la fermis¬ sima conclusione, non molto dissimile, ma più accentuata, da quella cui giunse nel '45 Julien Benda con La France byzantine, denuncia contro i grandi sacerdoti dell'Incomunicabile. Ai suoi inizi l'arte (quella che poi si scriverà con l'iniziale maiuscola ma che allora si scriveva con la minuscola), è un mestiere, una tecnica, un lavoro manuale poco pregiato. Vitruvio e Plinio affermano la nobiltà dell'opera dell'architetto, del pittore, dello scultore, ma i documenti relativi alla costruzione dell'Eretteo sull'Acropoli ateniese smentiscono questo/ lustro concesso a dei semplici salariati. Lo stesso famoso « Trattato » del Cennini ha ben poco di intellettualistico; è piuttosto un avviamento alla pratica dell'operazione artistica, sia a « Mare de,' colori », sia a « cuoce?-e delie colle ». Dovranno venire i Commentari del Ghiberti per trasformare i processi di fabbricazione in una definizione della figura dell'artista, che da questo momento comincia la sua ascesa alle Arti Liberali con l'aiuto degli umanisti. « Piacemi il pittore sia dotto n, scrive Leon Battista Alberti. Marsilio Ficlno pone pittura e architettura fra grammatica, poesia, retorica, musica; e Leonardo rivendica il suo talento contro quanti l'accusano d'essere « omo sanza lettere ». Così prende avvìo la storia dell'artista moderno, il suo individualismo, la «religione» dell'arte. Giotto dipingendo ad Assisi socondo la volontà dei conventuali (certo contraria allo spirito del Poverello), per i Bardi e i Peruzzi banchieri, per la teocrazia romana e per lo Scrovegni, ha obbedito a precise « commissioni »; ma due secoli dopo a Leonardo, nella insistente richiesta di Isabella d'Este d'un dipinto, si lascia « inventane et il tempo in arbi¬ trio suo». Ci vorrà la Controriforma (dramma dell'estrema vecchiaia di Michelangelo) col divieto « di collocare nelle chiese alcuna immagina che si ispiri a un dogma errato », perché l'arte sia nuovamente diretta dall'alto — e dall'alto, per altri motivi, la dirigeranno anche le Accademie, da quella di Roma a quella di Francia —; e perché, secondo l'affermazione del Gimpel, gli artisti siano « reintegrati nella società ». Profeti e semidei Fino a quando? Il Romanticismo li espellerà di nuovo facendone degli individui d'eccezione, dei profeti, dei demiurghi, dei semidei, liberi da tutto che non sia il culto del Bello: « Qualsiasi artista che si proponga qualche cosa di diverso dal bello, ai nostri occhi non è un artista », proclama Théophile Gautier. Da allora, malgrado gli appelli del Proudhon a un'arte sociale (già vagamente adombrata nel moralismo del Diderot), la via è segnata lungo una china sempre più precipitosa. Nel 1839 Arago annunzia all'Institut la strepitosa scoperta di Niepce e Daguerre: si può fissare una immagine meccanicamente e chimicamente; e il pittore Delaroche esclama: «La pittura è morta! ». Non è vero, e più prudentemente Delacroix ammette l'enorme aiuto che il dagherrotipo può dare alla pittura; ma è vero che il conflitto fra pittori e fotografi pone nuovi problemi alla pittura, non foss'altro che di reazione e differenziazione; e ne risente la poetica impressionistica. Progressivamente la « verità » del dato reale perde interesse per il pittore: Gauguin ritiene assurdo che una persona intelligente s'affatichi mesi e mesi per dare l'illusione « di fare altrettanto bene che una ingegnosa macchinetta ». Di qui al Simbolismo e poi al Fovismo, al Cubismo, all'Astrattismo, all'Espressionismo, ni Surrealismo, agli innumerevoli altri « urini », il passo è breve. La fotografia non uccide la pittura, ma — quasi per segreta suggestione — stimola l'artista a pensare unicamente a se stesso, a glorificare il suo « io », a ritenere decisivo per la vita dell'arte, per i suoi simili, per il mondo il suo « gesto », la sua action painting. Così egli si deifica, fino all'estrema aberrazione di esporre in una mostra scatolette che contengono i propri escrementi. E* un caso di ieri; e sulla « merde d'artiste » di Piero Manzoni la critica ha scritto seriamente segnalandone la intellettuale provocazione, il carattere contestatorio. Trasferendoci dal terreno della sconcezza a quello della mitizzazione dell'artista, ci si può allora riferire sia all'orinatoio inviato dal celeberrimo Duchamp alla mostra di New York (1917), sia al severo giudizio, citato più sopra, su una civiltà che divinizza al di là d'ogni ragionevolezza il pur portentoso Picasso. Probabilmente siamo giunti alla catarsi di un lungo dramma. Il teorico dell'Arte Povera, cioè della non-arte, Germano Celant scrive: «L'arte è finita da cinquant'anni. Basta con questa lagna, l'arte è una parola ». Contemporaneamente scrive il Gimpel: « Riteniamo necessario rivedere ormai la classificazione tradizionale delle Arti o Belle Arti, escluderne alcune e introdurne altre... In primo luogo, si devono escludere senza pietà dal santuario delle Arti la Pittura e la Scultura». Come sostituirle? Con le nuove arti visive che sono la fotografia, il cinema, la televisione (presto le « videocassette », libri figurati e li¬ bri scritti da vedere ed ascoltare «in scatole»), arti di sterminate possibilità culturali, concepite da uomini non legati al passato; e. soprattutto arti non per élites, ma come nessun'aìtra democrat-i che, e sottratte alla vecchia piaga della speculazione mercantile. E' la tesi del Gimpel. Ardita tesi che si può accettare, a condizione però che pittura e scultura sopravvivano riproporzionate ai fini per cui nacquero e ai modi con cui s'affermarono, ed affidate ad artisti demitizzati, ritornati alla ragione e alla misura umana. Marziano Bernardi *-

Luoghi citati: Assisi, Francia, New York, Parigi, Roma