Veleno antico nei Balcani di Sandro Viola

Veleno antico nei Balcani CHIUSA L'INCHIESTA SULLE TERRE CONTESE Veleno antico nei Balcani Alla carta politica dell'Europa orientale hanno messo mano in due secoli sultani e zar, re e cancellieri di ferro, fascisti e marxisti - Dopo la prima guerra mondiale, perché cinque milioni e mezzo di persone fossero soddisfatte nel loro irredentismo, se ne scontentarono altri quattro milioni - L'ideale di una federazione balcanica patrocinato da Dimitrov all'indomani del 1945 fu scoraggiato da Stalin - Ancora oggi l'Urss fa leva sui risentimenti nazionalistici per tenere in pugno i satelliti (Dal nostro inviato speciale) Budapest, 30 aprile. Ho qui, sul tavolo, la carta dell'Europa orientale. Ora che ho terminato un viaggio nei Balcani, attraverso i territori « contesi », le zone cioè dove si sono radicati i più antichi e spinosi problemi nazionali d'Europa, la carta mi serve a raccogliere le idee. Una carta politica come non ce n'è altre, cui hanno messo mano in meno di due secoli sultani e imperatori di tutte le Russie, re e cancellieri di ferro, fascisti e marxisti, Clemenceau, Ribbentrop, Ciano, Churchill e Stalin, in un accavallarsi d'interessi politici, strategici e'ideologici che nei manuali di storia si chiama appunto « balcanizzazione ». I giri di valzer Un celebre passo di Oszkar Jaszi, protagonista e storico della Question balcanique, riflette con grande nitidezza le contraddizioni nazionali della regione. Esso si riferisce al penultimo atto della vicenda, cioè ai Trattati di Versailles e del Trianon, che conclusero la prima guerra mondiale. « Perché 1.700.000 slovacchi potessero essere emancipati — scrive Jaszi — fu necessario che un milione di ungheresi e 260.000 tedeschi abbandonassero il suolo natale; per consentire a tre milioni di romeni di ritornare alla Romania, 1.700.000 ungheresi e 600.000 tedeschi vennero sottrati alla nazione ungherese; perché 500.000 serbi potessero unirsi in uno Stato coi popoli a loro congeneri, 400.000 ungheresi e 300.000 tedeschi furono ridotti alla scomoda posizione delle minoranze; per far sì che 250.000 tedeschi si reinserissero nella cultura germanica, 500.000 ungheresi e altrettanti croati furono strappati al paese dov'erano sempre vissuti. In totale, perché cinque milioni e mezzo di persone fossero soddisfatte nel loro irredentismo, fu necessario che quasi altri quattro milioni cadessero a loro volta in un nuovo irredentismo ». Né le convulsioni geopolitiche della regione erano finite. Tra il 1940 e la fine della seconda guerra mondiale i Balcani sono costretti a un altro giro di valzer. La Transilvania passa nel '40 dalla Romania all'Ungheria, per tornare a Bucarest nel '44. La Bulgaria occupa nel '41 la Macedonia, ma deve lasciarla tre anni dopo accontentandosi d'un pezzo della Dobrugia romena. Solo l'Urss che nel '40 si è annessa la Bessarabia e il nord della Bucovìna, allarga con una fetta della Slovacchia le sue acquisizioni territoriali. Il nuovo assetto politico dello scacchiere data dunque dal '45. Che cosa hanno significato da allora venticinque anni di comunismo? A guardare da lontano, in tutti questi anni, era parso che l'area fosse ormai disintossicata dai veleni del nazionalismo. C'era il problema della Macedonia, certo, agitato dai bulgari in funzione anti-jugoslava e dietro il quale non era difficile intravedere la pressione sovietica su Belgrado. Ma il resto della catena dei problemi nazionali si presentava letargizzato, come vicino a una definitiva soluzione. Un viaggio nei Balcani, attraverso il Kosmet, la Macedonia, la Transilvania e gli ambienti ufficiosi dì quattro capitali (Belgrado, Sofia, Bucarest e Budapest) dimostra invece che quell'ottica era imperfetta. Le contraddizioni naziona- li sono ancora fortemente sentite, infatti, ancora attive. Non c'è quasi un torpedone di turisti bulgari in Macedonia intorno al quale non scaturisca un incidente verbale nei casi migliori, e qualche volta un piccolo tafferuglio; non passa trimestre senza che una rivista culturale dì uno dei Paesi balcanici pubblichi uno studio sull'«ingiustizia storica» che ha strappato al Paese una porzione dì territorio e una parte della popolazione. Un coro di lamenti si leva da Salonicco a Budapest: lamenti ungheresi nei caffè della Transilvania romena, romeni nelle città dell'ex Bessarabia ora Repubblica socialista della Moldavia, albanesi nel Kossovo, macedoni nel Pirin, bulgari nella Dobrugia romena. Ma oltre agli timori delle minoranze, alla crosta di rancori e di pericolose nostalgie che la storia diplomatica ha depositato nella regione, il problema nazionale dei Balcani sopravvive per ragioni più strettamente politiche. Il comunismo, certo, era forse la sola visione del problema che ne permettesse la sistemazione. Ma contro l'ideologia c'erano e ci sono gli interessi politico-strategici dell'Urss. All'indomani del '45, riportato in auge sia pure confusamente dallo spirito della Resistenza e dal crollo del vecchio assetto, l'ideale d'una federazione balcanica che aveva improntato tutto il periodo dei moti nazionali anti-ottomani, sembrò riprendere corpo e plausibilità politica. Era un'idea di Dimitrov, uno dei più grandi capi che abbia avuto il comunismo internazionale, e tuttavia la reazione di Stalin fu rabbiosa. I sovietici intervennero subito sul rapporto personale Tito-Dimitrov, ostacolando scopertamente, con tutti i mezzi, gli approcci fugobulgari per un progetto federativo. Lo spirito di Yalta L'Urss viveva già lo spirito di Yalta e si preparava alla satellizzazione dell'Europa orientale. In questa prospettiva, ogni tentativo dì saldatura tra gli Stati balcanici poteva rappresentare un impaccio per il controllo sovietico della regione. Ventitré anni dopo, all'inizio del '68, la posizione sovietica era immutata: il progetto di petite entente che era andato maturando tra Bucarest, Belgrado e Praga non fu certo l'ultima delle cause che provocarono l'intervento. Tutto il panorama della zona, d'altronde, è pieno di segni che permettono d'intravedere la ferma volontà di Mosca di non lasciare che i problemi nazionali perdano vivacità e peso politico. C'è il caso della Macedonia, ci sono i gravi timori che i dirigenti di Bucarest nutrirono all'indomani dell'invasione della Cecoslovacchia (quando si attendevano una reazione manovrata dal di fuori della minoranza ungherese in Transilvania), c'è l'ambiguo silenzio degli ambienti scientifici moscoviti, peraltro pronti in tante occasioni a impartire lezioni ai Paesi del campo socialista, ogni volta che si accendono le dispute «sto¬ riche » sulla Transilvania, sulla Dobrugia o sui Trattati di Versailles e del Trianon. In conseguenza di queste due serie di fattori (quelli storico-etnografici causati dal movimento a fisarmonica dei confini della regione e quelli politici legati agli interessi strategici dell'Urss nell'Europa orientale), si assiste oggi a una vera e propria rinascita del nazionalismo nei Balcani. Annessioni russe Sentiamo allora a Bucarest gli amari discorsi sulla Bessarabia, il racconto del cinismo dì Molotov e Stalin, che all'inizio del '40 — mentre si profilava la decisione italo-tedesca di dare la Transilvania all'Ungheria e i comunisti romeni se ne allarmavano sollevando il problema nel Komintern — 'tacciarono i loro compagni di nazionalismo piccolo-borghese, mentre già erano pronti i piani per l'annessione della Bessarabia. O le notizie sulla russificazione « totale » della provincia, autore Breznev, inviatovi da Stalin nel '50 per ultimare la denazionalizzazione dell'ex territorio romeno. Ecco a Budapest gli storici magiari ribadire ciò che Radar dichiarò al IX Congresso del partito comunista ungherese nel 1966, che gli accordi del Trianon furono « un diktat imperialista », mentre decine dì migliaia di persone nutrono la nostalgia dei loro luoghi di origine in Transilvania, la tristezza del distacco da parenti e amici. Ecco Sofia sventolare la tradizione bulgara della Macedonia, i macedoni ricordare la pesante occupazione militare bulgara tra il '41 e il '44, gli albanesi scontrarsi coi serbi nel Kosmet, i croati e gli sloveni litigare con mace¬ doni e montenegrini al Parlamento jugoslavo. Intanto, tutto l'equilibrio del settore appare in movimento. Sinché gli americani erano stati i soli a pattugliare con la VI flotta il Mediterraneo orientale, mentre i sovietici si limitavano a mantenere una diretta presenza militare nella zona dell'Alto Danubio e dell'Europa orientale, i Balcani avevano perso gran parte dell'importanza politico-strategica che avevano avuto tra le due guerre. Ma la crescente penetrazione russa nel Mediterraneo rida alla regione un nuovo risalto. Così, dopo che per tanto tempo erano parsi dimenticati, i problemi nazionali della regione (fattore fondamentale del suo equilibrio) rientrano nel circolo della politica internazionale. Come ai tempi della Sublime Porta. Sandro Viola ,