Il lebbroso degli spazi

Il lebbroso degli spazi Il "Filottete,. di Braibanti Il lebbroso degli spazi Il personaggio di Sofocle portato nella fantascienL'opera a Genova con la regìa di Enriquez za (Dal nostro inviato speciale) Genova, 8 aprile. Nell'Altra ferita, che Aldo Braibanti ha composto ispirandosi al Filottete, poco è rimasto del testo di Sofocle, ma abbastanza del soprasenso di una favola che non da oggi affascina uomini di lettere e di teatro. Lasciamo da parte, sebbene il Braibanti vi abbia probabilmente pensato, l'equivalenza tra genio e malattia stabilita da Gide nel suo Philoctète. Ma il mito dell'eroe orrendamente piagato, e abbandonato su un'isola deserta dai Greci in rotta verso Troia, che molti anni dopo Ulisse e Neottolemo tornano a riprendere dopo che un indovino ha predetto che senza Filottete e il suo arco infallibile Troia non sarà mai conquistata, questo mito è ugualmente una parabola docile a diversi significati. Il Braibanti ne ha scelto uno attuale, tenendo evidentemente presente, sin dal titolo, il saggio L'arco e la ferita che Edmund Wilson ha dedicato alla tragedia sofoclea e alle riduzioni di essa. « La vittima di una malattia pestifera — scrive il critico americano (traduzione D'Agostino, edizione Garzanti) — che la rende odiosa alla società... è anche in possesso di un'arte sovrumana », ma i suoi simili ne potranno disporre « solo con la mediazione di uno che sia tanto schietto e umano da trattare Filottete non come un essere mostruoso, e neanche come uno strumento magico necessario per un dato scopo, ma come un altro uomo, le cui sofferenze destano la sua simpatia e di cui egli ammira il coraggio e l'orgoglio ». Ed ecco lo scienziato Paul Topfer, costretto su uno «scoglio di cielo» a una solitudine che gli ha incancrenito una ferita alla gamba, rifiutarsi agli uomini venuti dalla Terra con un'astronave per ottenere da lui una « tuta biologica » in grado di salvare l'umanità, ma cedere al gesto « caldo e implorante » di Jean Blanc, figlio di un suo vecchio amico, che rinnova l'atto di amore e di pietà di Neottolemo contro l'egoismo e la crudeltà di Ulisse qui reinventato in un nazistico capitano Niemand dal nome alla Verne e dalle « bianche intensioni soffuse di nerofumo ». Aver proiettato la vicenda in un fantascientifico futuro non si è dimostrato un espediente teatralmente efficace e nemmeno è servito a rendere meno greve e meno scoperta l'impostazione autobiografica di questo scienziato antifascista, il cui nome l'autore già usò come pseudonimo, confinato in un ghetto degli spazi interplanetari: un tempo campo di sterminio ( Topfer abita nei resti di un forno crematorio), poi lazzaretto. Nonostante le intenzioni, il testo è gelido e soprattutto oscuro: afferrati i simboli più vistosi, lo spettatore comune non riesce ad andare oltre sul terreno delle allusioni e dei riferimenti, né d'altra parte gli interesserebbe. Ed è oscuro anche perché, tra poche felici immagini, il Braibanti insiste con un linguaggio astruso, che maldestramente contamina parole poetiche e scientifiche in espressioni che quando non sono indecifrabili, inducono al sorriso. Per questo direi che l'autore ha peccato meno di presunzione che di ingenuità. E anche d'imprudenza: quando non si posseggono o,non si sanno maneggiare gli strumenti adatti, non si affida un messaggio, e nemmeno un'apologia, a un mezzo d'immediata comunicativa come dovrebbe essere il teatro. Il regista Franco Enriquez, che ha generosamente messo in scena L'altra ferita anche per aiutare un amico ingiustamente perseguitato, gli ha almeno giovato con il suo spettacolo? La scenografia di Luzzati — una cabina scardinata (la grotta di Filottete, naturalmente) sotto una cupola avveniristica e, contro il nero dello sfondo, la scala di corda che fa da cordone ombelicale fra Topfer e gli « altri » — è . di efficace suggestione, come i moderni maxicappotti indossati dai quattro interpreti. Ma la recitazione, nell'interessante tentativo di sottrarla all'enfasi liricheggiante o al semplicismo naturalistico, è spesso troppo convulsa anche se certi parossismi di parole o di puri fonemi aiutano indubbiamente a stabilire, con i suoni e i ronzii elettronici di Piero Grossi, la dovuta tensione. Gli attori (Tino Carrara, Beppe Pambieri, Piero Nuti, Franco Laffì) assecondano come possono i violenti e volontari scarti di una regìa che si sforza anche di tradurre nella gestualità le tritaggini di psicanalisi e di filosofia orientale che aduggiano il testo. Con qualche difficoltà da parte del Carraro (Topfer) che talvolta preferisce ubbidire — e come dargli torto? — ai propri impulsi realistici, con acutezza da parte del Pambieri che offre un buono «spaccato» delle contraddizioni e delle an¬ gosce del giovane Jean. Lo spettacolo dura un'ora e mezzo, tutto di fila, senza intervalli. Forse per questo i parchi applausi che l'hanno accolto ieri sera al Duse di Genova sembravano più un gesto di sollievo che un atto di convinta adesione.

Luoghi citati: Genova, Troia