Tra romani e "buzzurri"

Tra romani e "buzzurri" INCHIESTA SU ROMA ITALIANA CENT'ANNI DOPO Tra romani e "buzzurri" All'arrivo dei « piemontesi » l'aristocrazia nera chiuse i portoni dei palazzi in segno di lutto, mentre accorti speculatori vendevano «la paglia su cui dorme il Papa prigioniero» - Ma non c'era conflitto nei rapporti quotidiani tra conquistatori e conquistati; solo qualche malumore - I torinesi rimpiangevano i portici, i grissini, l'ordinato grigiore della loro città Ci sono vari aneddoti che riguardano l'incontro ed i primi contatti fra italiani e romani al momento e l'indomani dell'occupazione di Roma. Alcuni sono edificanti, come quello del maggior generale cav. Francesco Bessone comandante della brigata Abruzzi, che era parte della 13" divisione, il quale si trovò a bivaccare in mezzo alle sue truppe in piazza Borghese la mattina del 20 settembre. Domestici del principe romano di questo gran nome avvertirono il loro padrone che un generale piemontese — Bessone era nativo di Torino — stava accosciato davanti al portone a consumare il rancio con i soldati. Allora il principe discesesulla soglia e lo invitò nelle sale del palazzo: « Non permetterò mai che un generale italiano segga per terra davanti a casa mia ». Fattolo salire, lo invitò a sedere a pranzo alla propria tavola, mettendo anche a sua disposizione un quartierino dove il generale Bessone avrebbe potuto soggiornare fino a die gli fosse piaciuto. Quel principe Borghese era fra quelli che tennero chiusi a metà, in permanenza, i portoni dei loro palazzi, come si usa per indicare un lutto, in segno di solidarietà e devozione verso Pio IX. Alcuni della nobiltà più «nera» — come i marchesi Sacchetti — osservarono quel mezzo lutto fino all'11 febbraio 1929. data della conciliazione sopravvenuta fra l'Italia fascista e la Santa Sede. Coscienze turbate ti turbamento delle coscienze, quelle di alto livello, non colpiva comunque solo i romani devoti al Papa. Un altro aneddoto esemplare riguarda infatti quella che doveva diventare la contessa Margherita di Robilant, piemontesissima, che rischiò di perdere la vita il 20 settembre 1870 quando era ancora molto piccola. Stava sulle ginocchia della madre, la quale all'annuncio dell'ingresso dell'esercito italiano in Roma, accompagnato dal grido di terrore di una domestica, « Siamo scomunicati! », si lasciò cadere a terra la bambina, che si salvò, per fortuna. Per un diverso tipo di for- j tuna, di là da tutte le sco \ muniche religiose e le prò- i teste formalmente sociali. ] come la chiusura dei portoni a metà e la divisione dell'a \ ristocrazia romana nelle due bande nera e bianca (la pri- i ma delle quali rifiutò a lungo di intervenire ai ricevi , menti che si tenevano nel \ Quirinale regio), la convi- \ venza tra i romani e gli italiani di estrazione « buzzurro » fu stabilita quasi subito, ai più vari livelli, in base ad un sistema di accomodamenti che facevano e fanno onore ad uno spirito di pragmatismo, ad una fondamentale solidarietà nazionale, alimentati l'uno e l'altra da una vitale curiosità per le cose nuove. Prelati a caccia Agli italiani piaceva difatti moltissimo scoprire Roma, ed i romani si rendettero conto, prestissimo, dei vantaggi che potevano derivare dall'essere scoperti. Il commissario di P. S. di Borgo, Giuseppe Manfroni, non potè mancare, per il suo mestiere, di registrare giorno per giorno nei suoi diari i motivi di tensione politica nell'ambito della sua circoscrizione, le risse tra « caccialepri » e liberali, le voci di trame oscure che si ordivano di là dal portone di bronzo. In pari tempo, tuttavia, registrò i passi compiuti da un monsignore « addetto ad importante ufficio vaticano », il quale dal momento dell'occupazione di Roma da parte degli italiani si era visto privato della possibilità di darsi allo svago suo preferito, che era la caccia: « Chiedere al governo una licenza, con una domanda in carta da bollo, presentando i documenti prescritti, non poteva, perché dal Vaticano gli era stato posto il divieto; affrontare i pericoli di esser messo in contravvenzione dai nostri carabinieri, non voleva ». Il commissario Manfroni, naturalmente, gli diede una licenza sottobanco, e l'importante monsignore diventò un attendibile informatore su quanto si svolgeva in Vaticano. D'altra parte, lo stesso Manfroni fu subissato da una vera pioggia di lettere e raccomandazioni a favore dei piemontesi « che volevano vedere il papa » e che perciò gli chiedevano biglietti di invito per le udienze pontificie: « E' diventata una vera persecuzione », che culminò il giorno in cui fu esposta nella basilica di San Pietro, 11 febbraio 1878, la salma di Pio IX: « Ed io dovetti accompagnare dame di Corte, segretari generali ed alti funzionari dei Ministeri, senatori, deputati con le loro famiglie, che (...) si trovarono a contatto di gomiti con tutta l'aristocrazia nera. con monsignori e prelati » Era già un modo, .appros timativo o familiare, di con fluire su posizioni unitarie, ma soprattutto era un desi lerio di sdrammatizzare un presunto conflitto politicoreligioso che in realtà era sentito da pochi, e mantenuto vivo solo a livelli di alta politica e di astratta ideologia. E' certamente vero che la speculazione contagiava fino gli strati più bassi, e che non solo a Roma, ma anche all'estero (in tutto il Mezzogiorno della Francia e nel Belgio, ad esempio) si vendevano per pochi centesimi fascetti di paglia legati e sigillati con una striscia di carta sui cui era scritto: « Paglia su cui ha riposato il santo martire, prigioniero degli italiani, papa Pio IX ». Per due soldi si poteva comprare un'incisione rappresentante il medesimo Pio IX disteso su un pagliericcio; sopra una seggiola era un pezzo di pan nero e una brocca d'acqua. L'iscrizione diceva: « Ecco come gli italiani traditori hanno ridotto il sovrano di Roma, il Santo Padre dei fedeli, Pio IX ». E' anche vero, però, che a conferma di una situazione generale obbiettivamente conosciuta e di una conseguente disposizione di spirito, il già citato padre Pius, Ordinis Birichinorum Christi, scriveva nelle sue Epistolae obscenorum virorum che c'era un momento in cui si era temuto che il santo vecchio Pio IX morisse di dolore: « Sed — proseguiva nel suo bel latino maccheronico — prò maxima nostra sorpresa ille vivit, mangiat, bibit, dormit bene, canzonat omnes ad solitum, nugat et facit suos calamburgos sicut nihil fuisset arrivatum». « Stranus homo! — prosegue l'autore — Si non esset peccatum aliquid tale supponendi, ego pensarem illuni esse contentonem caduta dominii temporalis et se credere nunc majorem signorem quam antea. Factum stat quod ille male se praestat nostrae inventioni captivitatis et quo durat magnani faticam retinere eum a sortire ex Vaticano in carrozza dorata cum sex cavallis cum commitiva Guardiae nobilis et palatinae et percurrere Urbem ut videat utrum populus se prosterneat ante illum sicut priraam ». I nuovi quartieri Dei piemontesi, quando vennero a Roma, la maggior parte restò delusa. Racconta il vercellese Giovanni Faldella (nato a Saluggia) che Roberto Sacchetti, corrispondente romano della ! Gazzetta piemontese, l'attuale Stampa di Torino) considerava inabitabile l'allog- i gio che aveva trovato in una ! •itradetta della vecchia Ro- j ma, in via dei Pastini, e che non vedeva l'ora di trasferirsi in una magnifica pa¬ lazzina di via Goito, « nella Roma alta, ariosa, pittoresca ». Chi conosce via Goito, una delle più squallide della città detta umbertina, diffìcilmente sì renderà conto dell'ansia di Roberto Sacchetti, il quale comunque scalpitava, come si legge nelle « assaggiature » di Faldella su Roma borghese, nella sua stanza in via dei Pastini: « Era una cameretta triangolare come un cappello da prete: aveva l'aridezza delle cose tarlate, la distaccatezza della tappezzeria marcia e la slogatezza delle quadrelle che si spostano sotto i piedi, e lo schifo delle cose luride e logore ». Il fatto è che a quanto pare Roberto Sacchetti « aveva un fiuto finissimo, quindi non poteva sopportare gli odori, che sono la nota culminante della vecchia Roma ». "Rottami antichi,, Un altro giornalista piemontese, Eraldo Baretti di Mondavi, scriveva sul Compare Bonom che il cattivo odore dì Roma non era ancora tutto. Era una città con tante strade strette e tortuose, con tante rovine di monumenti, piena di pietre fruste, di vecchie mura e di rottami antichi ». Baretti perciò proponeva, abbastanza seriamente, di lasciarla al Papa, e dì costruire un'altra capitale in pianura, una città di forma stellare con al centro una piazza grandissima per il palazzo reale e il monumento a Vittorio Emanuele. I raggi della stella sarebbero stati strade larghe e diritte, tutte a porticati, per condurre ai ministeri. Forse appunto sognando una capitale simile, attorno al '90 ì piemontesi di Roma tutte le sere attraversavano magari tutta la città per andare a passeggiare sotto i portici nuovi dì piazza Vittorio Emanuele, fatta di grandi palazzi grigi costruiti sul modello della piazza Statuto di Torino. E brontolavano anche per altri motivi, annotava Baretti nel suo arguto piemontese che traduciamo per comodità dei lettori: « Ce ne sono ài tutti i tipi e per tutti i gusti. Ci son quelli che stanno volentieri nella nuova residenza, si sono acclimatati, e ai loro figli non insegnano più il dialetto ». Poi c'era un'altra categoria: « Quelli che si adattano, sopportano gli usi e costumi diver si degli abitanti, ma hanno sempre il pensiero fisso al la piccola Torino: una città come ce n'è una sola, dicono tutti ». Finalmente, c'era la terza categoria dei piemontesi che vìvevano invece in continua irritazione, « bestemmiando tutto il giorno contro questo paesaccio dove fanno le case senza portici, dove i carciofi si mangiano cotti e non crudi, dove non si trovano buoni grissini e dove, povera gente! neppure sanno che esista la fonduta con i tartufi... ». Se i rapporti tra i cosiddetti invasori e la popolazione che secondo Cadorna e Bersezio avrebbe avuto bisogno di essere « rigenerata» scendevano ad un livello di questo genere, la convivenza recìproca non presentava difficoltà maggiori di quelle che insorgono in tutti i casi di assimilazioni o fusioni. Da questo punto di vista, Roma si è dimostrata poi capacissima a fungere da melting pot nazionale, da pentolone dove, bollendo e ribollendo, gli ingredienti finiscono per intenerirsi, sciogliersi e fondersi in una specie di minestrone dove sarà difficile riconoscere le caratteristiche e le qualità originarie delle componenti, le quali tutte finiscono per acquistare un sapore e un odore medio comune. La ragione è da vedere nel fatto che l'acquisizione dì Roma alla nazione italiana era un problema di naturale evoluzione nella storia del paese. Tutte le complicazioni di carattere religioso, politico e diplomatico erano praticamente sovrastrutture che non arrivavano a colpire la coscienza popolare. Due storie parallele E, soprattutto, non erano in contrasto con gl'interessi concreti delle classi dirigen| ti. E' dunque possibile scrivere, almeno, due tipi di storie parallele, uno a livello delle cancellerie di Stato e dei teorici delle ideologie (laiche o clericali che siano), ed un altro a livello del comportamento dei singoli e dei gruppi costituiti. Naturalmente i due tipi di storia differiscono tra loro, ma il più aderente alla realtà probabilmente è il secondo tipo. Vittorio Gorresio (1 precedenti articoli dell'inchiesta sono apparsi '11 12, 14, 18, 21 e 27 marzo). Roma. Partita di caccia nella tenuta reale, in una l'olografia del 1871: insieme con i « piemontesi », i rappresentanti dell'aristocrazia « bianca »