Se ne vanno dalla Sardegna di Giuseppe Fiori

Se ne vanno dalla Sardegna Se ne vanno dalla Sardegna (In 20 anni 300 mila emigrati su un milione e mezzo dì abitanti) Dai documenti della Segreteria regionale dell'Uil ricaviamo che nell'ultimo ventennio 300 mila sardi (su 1 milione e mezzo di abitanti) hanno lasciato l'isola in cerca d'un lavoro altrove. Cioè venti sardi su ogni cento sono stati costretti ad andarsene. Nessun'altra regione d'Italia e nessun Paese al mondo ha subito un'emorragia di queste proporzioni. All'origine del fenomeno è, come dappertutto, la fuga dai campi per i più remunerativi salari dell'industria. Ma questo processo non può dirsi esclusivo della Sardegna e nemmeno delle regioni meridionali, solo per stare all'Italia. Qual è dunque l'originalità negativa della situazione sarda? In altre regioni, parte della mano d'opera espulsa dall'agricoltura è stata assorbita dall'industria. Ad esempio migliaia di braccianti pugliesi sono potuti rimanere a casa, o vicino a casa, grazie all'insediamento della Breda, dell'Eni, dell'Italsider. Allo stesso modo l'emigrazione dal Materano è stata frenata dalla scoperta dei gas combustibili a Pisticci e Perrandina. In Sardegna il collasso dell'economia agricola ha coinciso con la crisi dell'industria tradizionale, quella mineraria. La sola Carbonia dava lavoro a 18 mila dipendenti: ora sono poco più di mille. Il settore del piombo e dello zinco incontra difficoltà di mercato; per ridurre i compensi a livelli competitivi s'è dovuto spingere al massimo la meccanizzazione delle miniere: così oggi a Iglesias, nel complesso della MonteponiMontevecchio, l'abbattimento del minerale, il trasporto a bocca di pozzo e la separazione dallo sterile sono affidati alle macchine. Da dieci anni non si procede ad assunzioni, anzi, avvengono i licenziamenti « invisibili ». Cioè i minatori che vanno a casa per infortuni o infermità professionale o per raggiunta anzianità di servizio non sono sostituiti. Una volta i giacimenti nel Sud-Ovest isolano erano il punto d'approdo del personale esuberante in agricoltura, oggi non più. Al contrario hanno dovuto abbandonare l'isola anche gli operai occupati in miniera. Le nuove industrie sono prevalentemente petrolchimiche. A Porto Torres e a Sarroch, il paesaggio è mutato. Ma nella petrolchimica il rapporto tra capitale investito e mano d'opera è sfavorevole all'occupazione. Ogni nuovo posto di lavoro comporta un investimento di settanta-ottanta milioni. Perciò i nuovi impianti non hanno compensato lo smantellamento di Carbonia. Ecco infine quest'altro filone migratorio: i pastori che se ne vanno col gregge in Toscana, nelle Marche, in Umbria e nell'Alto Lazio. Qui trovano la tranquillità: possono lasciare il bestiame incustodito senza subire furti: possono dunque evitarsi le spese per la sorveglianza (il pastorello da tenere di guardia al gregge). Inoltre vivono radicati al podere, non più costretti al nomadismo. E la solitudine è vinta dalla vicinanza dell'ovile al paese. S'assiste ad un fenomeno interessante: la scomparsa della pastorizia locale, sostituita da quella sarda. Il veterinario provinciale di Siena ha svolto un'inchiesta. Alla domanda: « Che fine hanno fatto le pecore nostrane? » il veterinario di Pienza ha risposto semplicemente: « Mangiate ». Ora l'obiettivo dei sindacati è la creazione di condizioni propizie al ritorno dei trecentomila emigrati. Sono allo studio nuove iniziative dell'Eni, della Montedison, della Saras eccetera. L'Uil sarda ha proposto un incontro triangolare Regione-Sindacati-Imprese interessate perché sia fissato fin d'ora questo principio: il venticinque per cento dei nuovi posti riservati agli emigrati. Giuseppe Fiori