Un pittore della realtà

Un pittore della realtà LE MOSTRE D'ARTE A TORINO Un pittore della realtà Il livornese Gian Franco Ferroni - Le altre rassegne aperte in questi giorni: Piero Dorazio, Maurizio Mochetti, Damiano Macario Non v'e dubbio che Gian Franco Ferroni, livornese, 43 anni, e nell'ultima Biennale veneziana impostosi con una importante « personale » di 13 opere, sia un pittore della realtà; ma della realtà quale l'intende l'arte contemporanea che rifiuta il naturalismo, l'oggettivismo della rappresentazione. Infatti quand'egli inserisce nelle sue complicate, rotte, frammentate composizioni una figura umana, questa è davvero una « persona » fisicamente e spiritualmente necessaria e quindi definita, non un « pretesto » pittorico; e a questa persona egli affida la sua condanna d'un mondo e d'una società in cui si sente prigioniero, i suoi disgusti, la confessione drammatica della sua solitudine morale. Lo stesso dicasi degli oggetti inseriti nel quadro: tutto appare « vero » e nulla è vero. Di qui una forte differenza dal neorealismo politico e populista, che fuori dell'area comunista sembra volersi piegare a meno rigide e conformistiche forme espressive. Tuttavia il quadro di Ferroni, sempre avvincente e inquietante come si vede da quelli bellissimi ora esposti alla « Galatea » (via Vela 8) nella raffinata cornice di questa galleria ch'è a Torino una delle poche a seguire, con rare mostre, una linea di gusto, resta di difficile lettura. Non per nulla, a spiegare la qualità della fantasia dell'artista toscano, Giovanni Testori s'è riferito alla « memoria »; e si tratta, ci sembra, della particolare memoria che sorge illogica, quasi inspiegabile, nella condizione onirica: immagini che accennano, svaniscono, ritornano e nuovamente dileguano con assurda perentorietà, lasciando al risveglio una specie di misteriosa angoscia, mentre il loro ricordo si cancella. E' della precarietà d'un disperato esistenzialismo incombente sulla specie umana che ci vuole avvertire Ferroni? Trova egli, dipingendo, un rifugio nelle vaghe nostalgie che affiorano al suo animo? Questi contenuti, sospesi tra ermetismo e simbolismo, lasciano incerto l'osservatore. Che viceversa s'appaga appieno dello splendore della pittura in sé, del nerbo stilistico che la sostiene. La luce che taglia le penombre dell'Interno familiare (1964) è indimenticabile come una luce di Vermeer. * * Tutt'altra luce quella, non oggettiva bensì astratta, che emana dalle tele di Piero Dorazio, romano, coetaneo di Ferroni ma da lui lontanissimo per temperamento, sensibilità, intenti. La sua mostra alla galleria Martano (via Battisti 3) è la dimostrazione di quant'egli ebbe a scrivere nel 1960: « La luce, non intesa come fenomeno naturale ma come fenomeno originale e sintesi di ogni possibile risultante dell'operazione pittorica ». Portando all' estremo questo concetto, Dorazio — lungo un curriculum di pazienti ricerche iniziato nel 1947 sottoscrivendo il manifesto del « Gruppo romano formalista e marxista », e costellato di successi in Europa e in America — per anni ha ricoperto di colore lavoratissimo superfìci che a prima vista si scambierebbero per campionari di raffinate carte da parato (altre volte per eleganti campionari d'una fabbrica di vernici); ma intorno al 1965, se non erriamo, ha cominciato a sciogliere in « forme » — strisce vivacemente colorate — quelle compatte superfìci, e negli ultimi lavori a romperle con estrosi frastagli nei quali quasi sembra di scorgere dei vaghi accenni a suggestioni paesistiche; sempre perseguendo un effetto di luce-spazio. * * E poiché siamo nel tema « luce » segnaliamo la mostra di Maurizio Mochetti, di recente premiato a Bari, nella galleria Christian Stein (via T. Rossi 3). La sala è vuota; ma sulla parete bianca in penombra appare, proiettato da una fonte invisibile, un nastro luminoso che procede lentissimo lino al termine del muro; poi retrocede come riassorbito in sé stesso; il gioco ottico (op-art) dura forse due minuti. Sulla parete opposta un'asta metallica mossa da un celato motorino traccia sul pavimento l'immaginario profilo di sezioni di cono. Altrove in una cassetta fornita di pulsante scattano dei numeri graduati ad indicare uno « spazio-tempo ». Non c'è altro. Questi esperimenti si classificano tra le ricerche artistiche? A noi sembra dubbio. Ma ormai siamo in pochi a dubitarne; e di simili tecnicismi (sconfinanti per i loro autori in speculazioni «filosofiche») vedremo zeppa la prossima Biennale di Venezia. Si leveranno allora dalla critica clamori d'entusiasmo. * * Anche Damiano Macario, figlio del popolare attore, è umcst«AscfeMcgcsvBn uno sperimentatore accanito, ma in altra direzione, quella che ancora, con qualche riserva, si può chiamare pittura. Per la sua mostra a «Il Punto» (via Principe Amedeo 1) scrive Enrico Crispolti che il suo tema è « la crescita umana interrotta, affogata in uno spazio chiuso e inibente ». Questo spazio Macario lo dipinge oppure lo costruisce con pannelli di legno e metallo che non sono cornici ma completamenti spazipli della pittura. Il giovane Macario non è un improvvisatore; ha studiato a Brera contrastando coi suoi maestri, ha visitato i maggiori musei d'Europa ed uno dei suoi grandi amori è Goya. In Africa l'ha colpito il dissolversi della forma umana nella luce (anche Klee su quella sponda ebbe la rivelazione di sé stesso...), e da queste varie sensazioni ha tratto la sua tematica pittorica: ch'è l'embrione dell'esistenza, il germe dell'uomo, fisiologicamente il feto. Ne viene che i suoi quadri sono assai sconcertanti, ma certamente non privi di un meditato contenuto morale. mar. ber.

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