Proviamo un po' a contestare noi stessi di Nicola Adelfi
Proviamo un po' a contestare noi stessi VOI E NOI Proviamo un po' a contestare noi stessi Questo del 1969 è stato un Natale meno festoso e chiassoso di altri anni; l'estenuazione delle lotte sindacali, meno danaro in giro, ma soprattutto il ricordo di tutte quelle bare a Milano appena due settimane fa. E da Novara mi scrive «Una ragazza» (si firma così, anche se in calce alla lettera mette il suo nome, Dina T.). Mi scrive in un giorno di sciopero, mentre è a casa, sola e con la mente rivolta alle cose che accadono « in questa nostra epoca così travagliata e contrastante, ma nel contempo così palpitante». Ma chi è questa « ragazza di Novara »? « Sono semplicemente una giovane doima che lavora »; che non s'intende di politica, di economia o di sociologia, ma che si guarda intorno e cerca di penetrare Io spirito del nostro tempo; con un po' di tristezza, ma anche con un gran desiderio di pace e di amore. L'epidemia oggi più diffusa è l'egoismo, mi scrive « la ragazza di Novara ». Noi non formiamo più una società cristiana: siamo invece un aggregato di 54 milioni di persone che badano solo al proprio tornaconto immediato, ad aumentare i propri privilegi, a sentirsi di più del proprio vicino. Gli altri sempre di meno sono il nostro prossimo. Farsi furbi: questo è l'imperativo categorico. Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti. Sul ciglio della strada qualcuno agonizza per un incidente automobilistico? D'istinto il piede preme sull'acceleratore: non vogliamo grane, non vogliamo che la nostra macchina si sporchi di sangue. Non appena riusciamo a tirarci un po' più su dei vicini, il nostro piacere maggiore consiste nel farli sentire pezze da piedi: « E talvolta giungiamo fino al ridicolo circondandoci di mille inutili frivolezze ». Perché « molle famiglie non permettono che i loro bambini giochino con i bambini meridionali »? Semplicemente « perché in genere i meridionali sono poveri: se invece fossero ricchi, potrebbero allora essere anche figli di dinosauri e tutto andrebbe bene »; in quel caso i figli dei meridionali sarebbero premurosamente invitati « nelle nostre case dove tutto brilla e c'è anche un mobiletto antico (o quasi) ». Così va il mondo oggigiorno. I vecchi, coloro che ci diedero la vita e che per tirarci su fecero tanti sacrifìci, sono un impiccio, una noia irritante. Alla larga, alla larga! Se una nonnina timida, trepidante, capita in casa e i nipotini le dicono: « Scema, cretina, non capisci un cavolo », allora tutti sorridono compiaciuti come se quei tesorucci avessero compiuto chi sa quale prodezza. Però i bambini oggi crescono in fretta, e presto arriva il momento in cui si avventano con la stessa protervia contro la società, contro i tutori dell'ordine, contro i loro stessi genitori. Dobbiamo fargliene una colpa? Se può servirci come uno sfogo, accomodiamoci pure. Però teniamo a mente che quei ragazzi sono i nostri figli, i figli cresciuti nell'egoismo e in una insipiente tolleranza. Piano piano, sempre svolazzando in maniera imprevedibile tra i miei pensieri e sentimenti, « la ragazza di Novara » arriva al nocciolo della questione: le cose in Italia vanno male anche perché siamo noi che andiamo male. Sotto la spinta di pressioni scomposte e violente, il governo adotta provvedimenti. Però i loro effetti non sono duraturi e soddisfacenti per un motivo molto semplice: i provvedimenti non corrispondono a un disegno generale, a un programma preciso. Ma che altro può fare il governo se non tamponare di volta in volta le falle aperte dalla nostra cieca irragionevolezza? E allora? * Il primo passo dobbiamo farlo noi, non già di fronte agli altri, ma nei riguardi di noi stessi». In che modo? « Sarebbe necessario che ognuno di noi cercasse di spogliarsi del proprio egoismo, cercasse cioè di contestare sé stesso... ». Ed ecco la conclusione: «E' perfettamente lutile attribuire tutti i mali al governo, perché — ci piaccia O no — il governo, un governo democratico, è grandemente condizionato da tutti i mali che sono individualmente dentro di noi ». Nella lettera della « ragazza di Novara » c'è un concetto che mi pare meriti di essere sottolineato: è quello che riguarda la contestazione verso sé stessi. Quanti lo fanno? Lo so; è molto più comodo inveire contro gli altri che sottoporli con raccolta umiltà a un esame di coscienza. Però non è dello che le cose comode siano anche le migliori; anzi, in genere è precisamente il contrario. Infine, c'è speranza che le cose cambino, che gli italiani comincino a meditare sulle proprie responsabilità, sui propri doveri, sulle loro colpe individuali? Su questo punto « la ragazza di Novara » tace. Per parte mia, esito a pronunciarmi. Tuttavia, dopo l'esplosione di piazza Fontana, nel clima un po' depresso di queste feste natalizie, ho l'impressione che qualche cosa stia cominciando a cambiare; e proprio nel senso auspicato dalla giovane lavoratrice di Novara. Se è effettivamente così, io non dubito che del 1970 riusciremo a fare un anno migliore di quello che sta per finire. Nicola Adelfi
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