Kenyatta l'«europeo» di Sandro Viola

Kenyatta l'«europeo» L'AFRICA NERA A DIECI ANNI DALL' INDIPENDENZA Kenyatta l'«europeo» Il capo dei Mau Mau e della rivolta nazionalista tiene funzionari inglesi nel ministero dell'Interno, rispetta lo stile britannico e favorisce gli investimenti occidentali - Con un piccolo esercito, una forte polizia e l'appoggio della sua tribù controlla bene il paese - Ma se scomparisse potrebbero esplodere le conseguenze del tribalismo, della povertà e della corruzione (Dal nostro inviato speciale) Nairobi, dicembre. Il « Long Bar ». sulla Kenyatta Avenue, è affollatissimo. E' sabato, mezzogiorno, e per bere una birra bisogna destreggiarsi tra la folla, muovere il bicchiere nell'intrico degli altri bicchieri, fare attenzione alle spinte. Il banco di legno madido di birra, i lumi a palla, le bottiglie, i bicchieri (persino le coppe slargate in cui le donne bevono il tradizionale baby-champ;, tutto è come in un pub inglese. Ma non è solo questione d'arredo. Le facce, gli atteggiamenti,' il modo di ridere della gente, questa distensione totale favorita dall'alcool sono gli stessi d'un sabato mattina in un pub qualunque d'una qualunque città inglese. «Stasera le Bluebell» L'illusione è perfetta. Non c'è un negro, e il clima di Nairobi rende inutili gli abiti da colonia, gli shorts, le camicie a sahariana, i lini bianchì che gli europei vestono al tropico. Sicché le fogge, gli stessi tessuti sono quelli del week-end inglese: giacche di tweed, pantaloni «Cavarly», camicie di flanella leggera a quadrettini, cravatte di club o reggimentali, scarpe di camoscio marrone. Le ragazze sono in minigonna, e su tutti aleggia il fumo azzurro, l'odore un po' dolciastro delle « Player's » e delle « Senior Service ». Da una parete, scritto in bei caratteri floreali, pende il manifesto del Casino di Nairobi: stasera roulette, baccarat, il balletto delle Bluebells (« per la prima volta in Africa »), l'orchestra italiana, e ai fornelli il cuoco di Villa d'Este. Kenyatta ha scelto l'Occi- dente. Prima di Natale sì apriranno in Kenya cinque nuovi alberghi, montagne di marmo, ottone e velluti, in cui i gruppi occidentali hanno investito milioni e milioni di dollari. Altri dodici se ne apriranno nel 70, tutti col loro night club e il negozio di false statuette negre. Una vera corsa ha luogo tra i gruppi finanziari dell'Europa Occidentale, del Giappone e degli Stati Uniti per sopravanzarsi negli investimenti in Kenya. Non c'è una grande società occidentale che non abbia qui uffici d'una certa proporzione, contatti in corso col governo, programmi di lavoro. Le condizioni offerte dal governo kenyano sono buone, e le garanzie sull'esportazione dei profitti (ed eventualmente del capitale) sono assolute. La recente associazione della Comunità Est-Africana (Kenya, Uganda, Tanzania) alla Comunità economica europea attirerà sicuramente altro danaro. E7 la strada giusta? E' la strada giusta dello sviluppo africano? Molti autori dicono di no: quel che sta accadendo in Kenya (o in Costa d'Avorio) sarebbe una « crescita senza sviluppo n, un « perverse growth » che può dare qualche risultato (sul reddito, sull'occupazione) soltanto a breve termine. Altri economisti dicono di sì: la « formazione endogena» di capitale (da fondare sull'aumento di produttività del settore agricolo) sarebbe in Africa praticamente impossibile. Kenyatta e Houphouet - Boigny avrebbero quindi capito l'essenziale. Cioè che le economie africane non possono fare a meno dei capitali occidentali e d'una decisa integrazione nelle economie dei paesi industrializzati. Lasciamo da parte per adesso il dilemma (nel corso di questa inchiesta dovremo tornarvi ancora), e vediamo piuttosto perché il Kenya susciti tanto interesse nei gruppi finanziari occidentali. E' un perché evidente: in un panorama come quello politico africano, così convulso e instabile, il Kenya appare tranquillo. Poche sere fa l'ambasciatore d'un paese non lontano da qui faceva il conto dei tentativi dì colpo di Stato verificatisi, nella sola Africa dell'Est, negli ultimi mesi. Eravamo a cena, l'ambasciatore aveva deposto le posate e contava come spesso fanno gli africani, piegando con le dita della mano sinistra le dita della mano destra contro la palma. Primo dito: alla vigilia dell'arrivo del Papa, a Kampala, un ufficiale della Guardia tenta di sparare al presidente Obote. Secondo dito: assassinio del presidente somalo, e putsch dei militari. Terzo dito: attentato fallito contro il presidente del Burundi. Quarto dito: complotto contro Nyerere. scoperto a Dar Es Salam in ottobre. Quinto dito: tentativo contro Karume. vicepresidente « cinese » della Tanzania e signore di Zanzibar. Negli ultimi giorni si è aggiunto un «pronunciamento» nel Dahomey. In Kenya, con Kenyatta, pericoli d'improvvisi capovolgimenti politici non ce ne sono. Il vecchio capo sembra molto forte. Quando a Kisumu, un mese e mezzo fa, i Luo inscenano durante una sua visita una manifestazione ostile, Kenyatta non esita: scende dall'automobile, grida agli uomini Luo che li schiaccerà « come si schiacciano le locuste » (intanto la polizia spara ammazzando nove persone), e in tre giorni fa piazza pulita degli avversari. Ne scioglie il partito, il KPU, mette in carcere il leader della tribù Oginga Odinga, poi indice le elezioni. Così ora, dopo il voto di sabato scorso, al Parlamento di Nairobi non ci sono più neppure quella decina d'oppositori che vi sedevano sino a un mese fa. Giuramento Kikuyu Eppure sotto questa superficie apparentemente compatta, e al di là di certe concrete garanzie di continuità (112 funzionari inglesi al ministero dell'Interno, un esercito di soli tre battaglioni per evitare sorprese da quel lato, una polizia che è certo la migliore dell'Africa), il Kenya offre allo sguardo quasi tutti i più gravi pro¬ blemi africani. Qui, tolti alla loro dimensione continentale, è come osservarli al microscopio: nitidi, precisi e preoccupanti. Il tribalismo, l'autoritarismo; la veloce formazione d'una borghesia avida e già colma di privilegi (che i sociologi vedono irrompere pericolosamente in un panorama che non aveva mai conosciuto le « classi »), la fuga dalle campagne, la marea crescente dei disoccupati, gli errori della pianificazione scolastica. Distorsioni che non si possono far rientrare nella normale patologia della crescita, ma che 'già rappresentano la voce passiva nel bilancio dei primi dieci anni d'indipendenza. Il tribalismo resiste, anzi è esasperato dal fatto che la gestione del potere da parte d'una etnia (gli Ibo in Nigeria sino al '64, i Kikuyu in Kenya, i Bemba in Zambia, per non citare che qualche caso) approfondisce il solco che già la divideva dalle altre tribù. Escluse dai vantaggi che il potere politico conferisce alla tribù dominante, le altre etnie sognano la riscossa; per difendersi, il gruppo al potere rinfocola il sentimento tribale. Dopo Kìsumu, per sere e sere, una moltitudine di Kikuyu si recò nei prati che circondano la residenza di Kenyatta a Gatundu, e lì rinnovò il giuramento della tribù. Il giuramento Kikuyu, raccontano a Nairobi, ha forme arcaiche e momenti orripilanti. Ma il peggio non è il riaffiorare di cerimoniali che si vorrebbero scomparsi: il peggio è che dopo il giuramento dei Kikuyu il partito dei Luo è stato messo al bando, e che la tribù ha perduto quel po' di peso che ancora aveva nella vita del Kenya. Ecco uno dei fattori costanti dell'instabilità politica nei nuovi paesi africani. C'è poi quella che un so¬ ciologo americano chiama la « cleptocrazia »: la classe amministratrice costituitasi in élite economica, il cui costo sta assumendo proporzioni impressionanti. Anche questo è un fenomeno generale. A Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana, i dieci ministri in carica nel '65 disponevano di 230 automobili. In Costa d'Avorio il palazzo del presidente della Repubblica è costato otto miliardi. In Kenya, uno straniero che giunga a Nairobi e voglia affittare una villa dovrà rivolgersi a un ministro, a un direttore generale di ministero o a un deputato: i proprietari di ville sono loro. Queste informazioni non possono non tradursi m incertezza politica. Tant'è vero che a Nairobi gli osservatori concludono le loro descrizioni della situazione sempre con la stessa frase, una frase non drammatica ma neppure priva di preoccupazione: « Cosa succederà dopo Kenyatta? ». Sandro Viola (Il primo articolo dell'in» chiesta è uscito il 7 dicembre) Nairobi. L'ultimo generale « Mau Mau » che si arrese nel 1963