La dinamica salariale e i sindacati Risposte agli interventi dei politici

La dinamica salariale e i sindacati Risposte agli interventi dei politici Dopo l'intervista di gruppo a "La Stampa,, sull'autunno caldo La dinamica salariale e i sindacati Risposte agli interventi dei politici MACARIO (Cisl): «Lottiamo per cambiare le politiche salariali e quelle economiche e sociali» - RUFINO: (Uil) : «Siamo disponibili per un discorso sulla programmazione, sempre che esista la volontà politica per tradurre sul piano operativo le nostre proposte » - RICOSSA (docente universitario): «Diamo ai lavoratori tutto il vantaggio della produttività, ma attenti al limite: una fabbrica in rovina è una fabbrica di disoccupati» Sabato scorso abbiamo pubblicato la tavola rotonda sul tema: « I sindacati oggi e domani ». Il giorno dopo ci hanno scritto l'on. Ugo la Malia, segretario del pri, il socialista on. Antonio Giolitti, il senatore liberale Giacomo Bos so, presidente dell'Unione industriale di Torino. Alle loro osservazioni replicano oggi tre partecipanti alla tavola rotonda: Luigi Macario, segretario nazionale dei metal meccanici della Cisl, Luciano Rufino, segretario confederale della Uil, Sergio Ricossa, professore di politica economica all'Università di Torino. Macario Signor Direttore, talune osservazioni e particolarmente quella dell'on. La Malfa all'intervista di gruppo de La Stampa sulle questioni sindacali del momento e future mi inducono ad una breve replica. Quando si muove ai sindacati il rimprovero « di fare della semplice contrapposizione di classe » e si afferma « che questo è un concetto grezzo, rudimentale e del tutto inadeguato » si tenta di liquidare in maniera grossolana e superficiale un problema che merita invece analisi più approfondite. La Malfa infatti ignora e non dà risposta ad almeno due fatti: il primo. la condizione di persistente emarginazione dei lavoratori e la conseguente esigenza di cambiare t rapporti di potere all'interno della società; il secondo, che la programmazione e più in generale la politica economica e sociale di centro-sinistra hanno fallito in grandissima parte i loro obiettivi. A quale corresponsabilità possono ancora essere chiamati i lavoratori? Forse a quella di collaborare a qualche altro programma che sarà regolarmente e nuovamente disatteso? Sono molti, troppi anni che abbiamo, tentato inutilmente la strada del dialogo, e còme unica conseguenza abbiamo dovuto constatare che questa disponibilità è stata strumentalizzata per tenere buoni i lavoratori lasciando, in pratica, che nei fatti si imponesse la programmazione privata dei profitti, permanesse il disordine amministrativo e si rinnovasse un grave immobilismo rispetto a tutti i nodi strutturali del nostro Paese (occupazione, Mezzogiorno, agricoltura, scuola, rendite parassitarie ecc.). Di qui è nata, in maniera perentoria, l'esigenza di un profondo cambiamento di linea sindacale le cui implicazioni sono quelle che ho cercato di indicare nell'intervista di gruppo a La Stampa e che stanno conquistando margini di credibilità tra i lavoratori in misura quale il sindacato forse non aveva mai conosciuto in precedenza. Oggi, più che mai, sono i lavoratori protagonisti dell'azione sindacale. La nostra linea si può così sintetizzare: una politica salariale considerata come variabile indipendente; un'azione generale del sindacato che prenda di mira le storture del sistema e cambi, anche fuori della fabbrica, la condizione operaia. E' una linea che sollecita, tra l'altro, un nuovo modo di fare politica e chiede alle classi dirigenti di confrontarsi con le spinte di base, vale a dire con il Paese reale ed i suol problemi. E' questo un altro elemento che La Malfa non avverte: il bisogno di partecipazione dei lavoratori al quale una moderna democrazia deve saper rispondere. Che le nostre non siano ipotesi infondate lo dimostrano anche le osservazioni dell'on. Giolitti e talune ammissioni dello stesso sen. Bosso a commento dell'intervista di gruppo de La Stampa. In una parola, nel nostro Paese non solo devono cambiare le politiche salariali, ma molte altre cose, cioè le politiche economiche e sociali tradizionali. E' per questo che lottano oggi in Italia i lavoratori, con una concezione che va ben oltre il contratto. In queste lotte bisogna saper vedere l'ansia di una prospettiva nuora per tutta la società. Se vent'anni fa un'unità sindacale immatura e malferma ha compromesso quello che poteva essere il logico sviluppo della Resistenza, oggi l'unità nelle lotte diventa sempre più forte e sicura e impone, o finirà per imporre, che si prenda atto di una componente nuova determinata a fare veramente politica. Luigi Macario Rufino Signor direttore, i sindacati sia oggi come nel 1961-'63 si trovano di fronte a delle importanti scadenze contrattuali che impongono, in contraddittorio con i rappresentanti imprenditoriali, delle soluzioni basate sulle richieste e sulle rivendicazioni delle categorie interessate. Non riusciamo quindi a comprendere la connessione tra tali attività e la politica dei redditi patrocinata dall'on. La Malfa. E' significativo come solo di fronte a richieste di aumenti salariali ci si ricordi della programmazione, della stabilità monetaria, dei problemi dello sviluppo e dell'espansione economica. Del resto una qualsiasi politica programmata e una qualsiasi politica dei redditi comporta sul piano teorico un controllo non solo dei salari, ma anche dei profitti, dei prezzi, del volume degli investimenti e delle loro dislocazioni. Ciò allo stato attuale non è possibile per quelle carenze della classe politica che hanno affossato la politica di programmazione. In tale dimensione, politica dei redditi significherebbe so- lo ancoraggio degli aumenti salariali agli incrementi di produttività conseguiti. Nulla assicura che tale proporzionalità sia in grado di favorire l'equilibrato sviluppo del sistema, particolarmente in situazioni, come quella italiana, ove fenomeni di irresponsabilità, come la fuga di capitali all'estero, contribuiscono in maniera pesante a peggiorare la piena utilizzazione delle risorse. Le organizzazioni sindacali non hanno mai rifiutato di discutere in termini globali i problemi della condizione operaia nell'attuale situazione e sono note le varie prese di posizione confederali in ordine ai problemi che assillano la nostra società, dalla scuola all'assistenza sociale, dal sistema pensionistico alla formazione professionale, dalla legge urbanistica ai problemi della casa. Sono note altresì le scarse adesioni riscontrate da parte dei pubblici poteri in ordine al tipo di collaborazione proposta. La disponibilità per un discorso riferito ad una programmazione della nostra economia in termini impegnativi resta per noi valida sempre che esista una volontà politica in grado di tradurre sul piano operativo le proposte avanzate dal mondo dei lavoratori. Non si può giudicare con estrema facilità l'autunno sindacale come un momento di richieste settoriali poiché esse attengono a normali scadenze del rapporto di lavoro di importanti categorie. Se tali rivendicazioni vengono ad assumere un carattere particolare ciò è dovuto alle condizioni strutturali nelle quali ci troviamo ad operare. In una economia di mercato non si può chiedere ai lavoratori di essere l'unica parte «responsabile» del processo produttivo. Quanto alle osservazioni del sen. Bosso riferite ad una presunta tendenza dei sindacati verso un corporativismo di inedita estrazione dobbiamo fare osservare che la nostra direzione di marcia è di segno opposto, infatti attraverso l'autonomia ed il processo di unità si intende organizzare su basi globali la lotta ed il ruolo dei sindacati nella società. Da ciò traiamo l'assoluto rispetto per le altre componenti istituzionali del nostro sistema democratico, Parlamento, governo, partiti e padronato che operano in una sintesi che può essere contrapposizione, ma che deve comunque garantire i diversi ruoli. Riteniamo che l'iniziativa de La Stampa ci abbia offerto l'occasione per un interessante dibattito che ci auguriamo possa proseguire in modo da fornire un quadro di riferimento su pro¬ blemi che interessano l'intera collettività e che spesso nella polemica quotidiana vengono presentati in maniera distorta o approssimativa. Luciano Rufino Ricossa Signor Direttore, vedo che anche negli interventi degli uomini politici, suscitati dal suo giornale con il dibattito sui sindacati, si scrive molto di produttività. Nei prossimi due o tre anni, quanto si riuscirà a produrre in più, in ogni ora di lavoro, grazie a macchine, organizzazioni e abilità migliori? Probabilmente la produzione oraria aumenterà del 6-7 per cento all'anno, in qualche azienda di meno, in qualche altra di più, come è accaduto nell'industria italiana (e anche all'estero) nel recente passato. Non è - un « dato fisso », ma una previsione, e sarei ben contento di sbagliarmi per difetto. . Si può fare qualcosa per progredire più alla svelta? Certo sì, per esempio nel campo, delle scuole per la formazione professionale (una « gravissima strozzatura », scrive l'on. Giolitti), ma è diffìcile che in due o tre anni la situazione cambi radicalmente. , Per le scuole e per tante altre magagne italiane, essere troppo ottimisti significa vivere con la testa fra le nuvole, il che è pericoloso soprattutto se la testa è quella di un uomo politico. Si può investire di più per l'ammodernamento tecnologico? Supponiamo pure che gli industriali, i quali per mestiere sono sempre a caccia di macchinari più efficienti, ne scoprano di qualità ancora superiore. Non basta: occorre inoltre trovare chi è in grado di produrre e vendere quei macchinari, e trovare i soldi per pagarli. Mobilitiamo tutte le risorse produttive del paese, in particolare tutti i disoccupati con un mìnimo di qualificazione professionale, forse riusciamo a produrre i macchinari desiderati, ma oltre un certo punto in due o tre anni non possiamo andare, senza rinunciare ad altre cose che ci fanno piacere. Non vogliamo soltanto più macchinari, vogliamo anche più case, più scuole, più ospedali, cioè gli investimenti produttivi fanno concorrenza agli investimenti sociali; vogliamo più carne, più elettrodomestici, più divertimenti, cioè gli investimenti produttivi e sociali fanno concorrenza ai consumi; e infine vogliamo, o almeno i sindacati vogliono, che si lavori quattro ore in meno alla settimana e si abbia più vacanza, cioè il riposo fa concorrenza alla produzione. (Pure gli scioperi fan concorrenza alla produzione). I soldi dati ai lavoratori non sono più disponibili per comperare macchinari, eccetera, a meno che si risparmi di più e si consumi di meno. Gli italiani sono dei gran risparmiatori, risparmiano circa 200 lire ogni biglietto da 1000 disponibile, ma da un po' di tempo a questa parte si stanno convincendo che l'Italia non è il posto migliore per risparmiare, e pare che non abbiano tutti i torti, se perfino il governo, in un documento ufficiale, ha riconosciuto che all'estero il risparmio è più ricompensato e corre meno rischi. Di qui la « fuga dei capitali », non grave, ma che mette in imbarazzo, fra gli altri, coloro che han bisogno di farsi prestare il denaro per investire o che, avendo relativamente pochi profitti, non attraggono i risparmiatori. Dunque, diamo ai lavoratori tutto il vantaggio dell'aumento della produttività, come solitamente si è fatto; diamo il più possibile, ma attenti al limite. Una fabbrica in rovina è una fabbrica di disoccupati. Dove stia esattamente il limite è difficile dire, bisogna fare dei conti (chiamiamoli programmazione, politica dei redditi, o come si vuole), e le cifre sono infide, vanno controllate. La massa salariale pagata dall'industria, e che secondo l'onorevole Giolitti sarebbe aumentata del 2 per cento dal 1963 al 1968, secondo dati del ministro per il Bilancio e la programmazione sarebbe aumentata di un buon 50 per cento. Si parla di cose diverse? Ragione in più per discutere a mente fredda: mente fredda per un autunno caldo. Sergio Ricossa ll di llb l

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