I rapporti tra le grandi potenze

I rapporti tra le grandi potenze Scienziati e scrittori prevedono il 1980: II - Galbraith I rapporti tra le grandi potenze Oggi in politica estera non esistono demiurghi; sono le circostanze ad imporla, le burocrazie a realizzarla - Nemmeno i due Super-grandi possono organizzare il mondo come vogliono, o farsi la guerra: Stati Uniti e Russia devono seguire sviluppi convergenti - «Ma stiamo vivendo con molte spade sul capo e mani diverse lottano per impadronirsi del filo» Su The Times in Gran Bretagna e in Italia su La Stampa continua la pubblicazione d'una serie di saggi sulle prospettive del 1980. Ieri è apparso sul nostro giornale il primo articolo, dei biologi Jullan Huxley e Max Nicholson; oggi pubblichiamo 11 contributo del diplomatico e storico americano John K. Galbraith. Seguiranno articoli di Herman Khan, Bernard Loweli, Asa Briggs e Arthur Koestler. Uno dei tanti miti che intralciano la realtà afferma che alcuni individui sono la forza motrice nella creazione della politica internazionale. Ma gli ultimi venticinque anni semplicemente dimostrano quanto sia deludente il bilancio dell'opera di questi individui. Nessuno fu più totalmente impegnato nella guerra di John Foster Dulles; ì suoi discorsi e forse anche le sue convinzioni ci riportarono alla memoria le immagini di Urbano H mentre guidava i cristiani nella prima crociata. Eppure quella contrazione del comunismo, che egli prometteva, non fu mai realizzabile; nell'insieme, anzi, egli fu al potere in un periodo in cui cominciarono a distendersi i i-apporti con quel mondo endemicamente malvagio. Il più risoluto discepolo di Dulles fu Dean Rusk, il quale salì al potere con un'approfondita e dettagliata convinzione dell'esistenza di un complotto comunista mondiale, una stretta rete tenuta sotto fermo controllo. Perciò Rusk elaborò una politica che avrebbe dovuto bloccare, con decisione e dovunque, qualsiasi tentativo di penetrazione da parte del complotto comunista. Quando Rusk abbandonò la carica senza aver mai veramente rinunciato alla sua convinzione, alcuni esperti della violenza ritenevano che Mosca e Pechino stessero per contemplare la reciproca distruzione. La linea adottata in Vietnam, appropriata alla concezione di un comunismo imperialista e cospiratore, era diventata il peggiore disastro nella storia della politica estera americana (...). Più facile prevedere La verità è che gli uomini non dominano gli eventi e neppure dominano la burocrazia. Sono le circostan ze che creano la politica estera ed è la burocrazia che adatta l'azione politica alle circostanze. Tutto sommato, dovremmo essere felici che sia così, specialmente se si guarda al futuro. E questo perché vuol dire che la politica estera, a parte i grandi incidenti, è molto più prevedibile di quanto sarebbe se fosse opera degli uomini. Questo vale per i rapporti fra gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica: rapporti che molti considerano come la quasi totalità della polìtica estera mondiale. In questo settore le circostanze sono molto importanti ed in entrambi i Paesi la burocrazia costituisce una forza trascendente. Le circostanze stanno forzando le due superpotenze ad essere assai meno messianiche, sia nello spirito sia nell'azione, di quanto non fossero solo dieci anni fa. Questo perché entrambe hanno capito, come ha precisato Arthur Sehlesinger, che le superpotenze possono contare sulla loro forza molto meno di un tempo. Sotto questo aspetto il Vietnam è stata una lezione magnifica. Mezzo milione di' uomini e cento miliardi di dollari ci hanno permesso di esercitare in quel paese la nostra autorità solo entro il raggio di tiro del cannone (...). Altrove, in quell'arena naturale della concorrenzaideologica oggi chiamata Terzo Mondo, ci siamo accorti di quanto siano stati sottovalutati i problemi dell'espansione e dello sviluppo. Una delle conseguenze permanenti della ricostruzione dell'Europa, aiutata dal Piano Marshall, fu un enorme ottimismo circa quanto si sarebbe riusciti a raggiungere compiendo uno sforzo identico in India, in Pakistan, in Indonesia, nell'Africa e nell'America Latina. Coloro che erano associati col Piano Marshall attribuirono la ricostruzione europea non al vigore, per un poco solo latente, dell'Europa, non cioè alla sua vera causa, ma alle meraviglie prodotte dall'immissione di capitali, accompagnata dalla genialità degli stessi organizzatori del Piano. Il Terzo Mondo aveva quindi semplicemente bisogno di una simile immissione, accompagnata da un'altrettanto simile genialità. E siccome ne sarebbero risultati sviluppi rapidi e nazioni potenti, diventava importante che questi Paesi si legassero al sistema economico occidentale e non al comunismo. Si deve presumere che questo interesse occidentale per uno sviluppo non comunista sia stato uguagliato da un'ansietà sovietica in direzione opposta. Oggi, ahimè, sappiamo che la cosa nonha importanza. Sappiamo che i tempi di sviluppo saranno- così lenti da rendere pura accademia le congetture su quello che emergerà alla fine. Nel frattempo una giungla, sia essa capitalista o comunista, è sempre una giungla, e chiunque l'attraversi non può accorgersi della differenza. Nell'ultimo quarto di secolo la politica estera si è basata sul presupposto della inevitabilità di un conflitto fra i due sistemi, fra Stati Uniti e Unione Sovietica. Quali sono oggi le prospettive circa questo aspetto dei rapporti fra le due superpotenze? Anche se gli intransigenti di entrambe le parti continuano a resistere con forza all'evidenza dei fatti, non c'è dubbio che i due sistemi presentano una tendenza targamente convergente. Questo non deriva da una scelta e neppure dipende, come vuole una semplicistica opinione occidentale, dalla scoperta del potere magico dell'economia di mercato da parte sovietica. Entrambe le comunità devono obbedire agli stessi imperativi, che sono quelli della produzione industriale su vasta scala con una tecnologia avanzata. Perciò entrambi i sistemi pongono grandi responsabilità sulle spalle dell'impresa industriale, il solo inevitabile strumento dell'industrialismo. In entrambi i Paesi gli uomini sono soggetti alla disciplina sociale e mentale di quello strumento. I sovietici hanno dovuto tare concessioni di autonomia all'impresa: un'autonomìa di cui essa automaticamente gode in Occidente, perché l'impresa è nata dall'economia di mercato. L'industrializzazione esige anche pianificazione, e a questo proposito è stato l'Occidente a dover fare concessioni. Se vuole avere la condizione ambientale stabile e pianificata necessaria al successo, la grande impresa industriale deve controllare i costi, i prezzi e, in misura sostanziale, anche il comportamento dei consumatori. Lo Stato deve intervenire per stabilizzare la domanda, procurare mano d'opera addestrata e contribuire ad iniziative tecnologiche che comportano rischi: tutte cose che l'impresa industriale non può fare da sola. Inoltre, in entrambe le società la forza guida non è l'individuo, ma l'organizzazione. Di conseguenza una delle cause principali dì tensione sociale in tutti e due ì Paesi è la chiara impotenza dell'individuo nei suoi rapporti con le burocrazie pubblica e industriale. Come ho detto, il cammino di queste tendenze convergenti suscita oppositori da ambo le parti. Per coloro che, a sinistra, hanno imparato una volta per tutte la differenza fra capitalismo e società marxista-leninista, la cosa implica eresia, o comunque impone la necessità di pensare qualcosa di nuovo. Per i membri' più anziani della burocrazia militare e diplomatica americana, la nozione che comunismo e capitalismo siano molto diversi e che l'uno sia cattivo mentre l'altro è buono, rappresenta l'unica informazione sociale da essi ereditata. Persino il mondo accademico ha un sostanziale interesse acquisito nella differenza tra pianificazione e mercato libero: essa continua ad essere il capitolo finale nei testi di economia. Le spese militari Eppure la forza convergente dell'industrialismo e della tecnologia esiste. E man mano che le similarità si fanno più evidenti, l'idea che un conflitto sia inevitabile subisce un'erosione anche fra gli spiriti più bellicosi. Rimane, comunque, un lascito della guerra fredda che non è certo entusiasmante. E cioè il ruolo altamente funzionale assunto nell'economia industriale moderna dalle spese militari e specialmente da quelle relative alla tecnologia avanzata. . Per mólto tempo è prevalso un cliché dell'economia liberale che le spese milite'' ri non servono ad alcuna funzione particolare. La spesa pubblica era omogenea; se le spese militari diminuivano, quelle civili, private o pubbliche, potevano approfittarne. Oggi questa tesi può essere sostenuta solo dagli apologisti incalliti. E' ormai riconosciuto che le spese militari sostengono una vasta ed influente industria, che le stesse Forze Armate sono potenti nella loro fortezza burocratica e che, di conseguenza, le spese militari sono più facili di quelle civili. Nessun bilancio di spese civili, a parte quello dell'esplorazione dello spazio, contribuisce in egual misura allo sviluppo della tecnica. Non solo; ad un certo punto dello sviluppo industriale, gran parte dèi progresso tecnico diventa troppo costoso e rischioso per l'impresa industriale privata Deve perciò essere socializzata. Così è successo per la energia atomica, per lo sviluppo dei trasporti aerei, per la tecnologia dei computers e per l'elettronica più avanzata. Le spese militari sono per noi il mezzo principale per raggiungere questa.socìrUzzazione sema doverlo ainmettere. Occhio ai generali Il mondo militare - industriale non può essere apertamente favorevole alla corsa al riarmo, ma può reagire con strapotenti pressioni ad ogni gesto sovietico che possa offrire un pretesto per giustificarla. E può, entro certi limiti, approfittare del suo controllo sui servizi segreti per inventare una giustificazione. Se si presume che esista una controparte nell'Unione Sovietica, gli incoraggiamenti, reali o anche solo indicativi, non tarderanno a venire. La corsa al riarmo proseguirà sino a che un'azione o un incìdente precipiterà il disastro finale. Eppure anche qui, pur non essendoci motivo di ottimismo, si intravedono dei raggi di luce. Negli Stati Uniti la corsa al riarmo viene sempre più vista nei termini sopra descritti. Come risultato, le spese militari sono recentemente divenute oggetto di un esame critico senza precedenti. Si aggiunga che uno spostamento nei raggruppamenti politici, spostamento tuttora non sufficientemente apprezzato, ha modificato la posizione del potere militare negli Stati Uniti con vasti mutamenti di prospettive. . Nei due decenni che seguirono la seconda guerra mondiale, i liberali americani in questioni di politica estera, si ritirarono su posizioni difensive. L'alleanza con Mosca durante la guerra ed il ritorno dì Stalin alla sua vera posizione nel periodo post-bellico, la rivoluzione cinese, gli episodi di spionaggio e la guerra in Corea li resero vulnerabili agli attacchi dei conservatori. Di conseguenza la politica estera del partito democratico fu affidata ai professionisti del Dipartimento di Stato ed alle Forze Armate, cioè alla burocrazia; e come leaders furono scelti i repubblicani deZZ'establishment di New York. L'unico non repubblicano fu Dean Rusk, il quale era stato solo marginalmente attivo nella politica interna. Salvo alcune eccezioni, questi uomini servirono tutti sotto Eisenhower e vennero via via considerati come i custodi naturali della politica estera della Repubblica. In alcune occasioni essi seppero frenare i generali; ma, con l'eccezione di Arthur Dean, non sì preoccuparono del potere militare. Alcuni, e soprattutto Rusk, considerarono la diplomazia al servizio di quel che conveniva ai militari. La guerra nel Vietnam* in? 'siem'e con gli avvenimenti che precedettero le elezioni dell'autunno scorso, Ila posto fine- all'associazione fra questo gruppo ed i democratici liberali. La débàcle del Vietnam ha fatto sì che oggi, in politica estera, la rispettabilità si associ ai nomi dì coloro (Fulbright, Mac Carthy, Kennedy, McGovem) che si sono opposti alla guerra e che non hanno certo fiducia nel potere militare; questo ha perso così la protezione di coloro che sapevano interferire a suo vantaggio. Prima delle elezioni, un anno fa, il Dipartimento di Stato permise al presidente Thieu di ritardare i negoziati per la sospensione dei bombardamenti: sospensione che era necessaria al vicepresidente Humphrey per vincere le elezioni e che, quando avvenne, sia pure in ritardo, gli permise quasi di vincere. Thieu, è presumibile, sperava nella vittoria di Nixon, dal quale, alla luce del suo passato politico, egli avrebbe potuto ricevere un appoggio ancora maggiore. Rusk e il Dipartimento di Stato divennero così i taciti alleati del presidente Thieu e di Nixon, contro i democratici ed il vicepresidente Humphrey. Questa esperienza ha ulteriormente rafforzato fra i democratici la convinzione che la politica estera (la nemesi sia di Johnson che di Humphrey) non dovrà mai più sfuggire al loro controllo. Di conseguenza, l'opposizione alla politica degli armamenti dominata dai militari, e l'appoggio a negoziati per il controllo degli arsenali e per l'arresto della corsa al riarmo, sono oggi più forti e compatti di quanto siano stati per molti anni. I/onta dei Grandi Rimane l'interrogativo della reazione dell'Unione Sovietica. Sebbene sia giusta presumere che i leaders sovietici abbiano un'opinione realistica circa quanto sia possìbile ottenere con gli arsenali nucleari, nessuno sa quale rapporto questo abbia con il loro atteggiamento verso i negoziati. Tutto ciò che sì può dire con certezza è che atteggiamenti simili nei due Paesi si rafforzano reciprocamente. Una sera dell'agosto dell'anno scorso, dopo essere stato nominato per breve tempo portavoce in politica estera del senatore Mac Carthy, avevo appena finito il mio intervento in un Comitato. Il segretario di Stato aveva cominciato ad affrontare un compito che si faceva sempre meno piacevole: quello di difendere la saggezza e, in maniera più specifica/la legittimità della politica americana .in Viet¬ nam. Un messaggero portò la notizia che l'esercito sovietico stava entrando in Cecoslovacchia. Sì fece subito sentire, in modo quasi tangibile, la soddisfazione dei nostri oppositori (non includo qui Rusk, perché se ne andò via subito). I comunisti sì stavano comportando come molti si aspettavano che si sarebbero comportati. Coloro che dubitavano della saggezza della nostra politica di resistenza al comunismo in Vietnam non avrebbero potuto ricevere istruzioni più tempestive. In ultima analisi, mi sembra, non fu questo il giudìzio del pubblico. Fu piuttosto che i sovietici dovevano ancora conoscere l'onta che meritino le grandi nazioni, quando cercano di con- ' trottare i destini di quelle piccole. Di fronte alla questione decisiva del controllo degli armamenti, quindi, il problema non è fra i governi. E' fra le forze politiche all'interno delle due potenze: dipende dal modo in cui esse reagiscono luna contro l'altra e, in ultima analisi, dall'azione pubblica. Negli Stati Uniti gli auspici sono, se non favorevoli, più propizi di quanto siano mai stati. Riguardo all'Unione Sovietica si può solo sperare. In questo, come è ovvio, risiede il rapporto critico della politica estera fra le due superpotenze. Non è, come ebbe a dire il presidente Kennedy, che stiamo vivendo con una spada sospesa sul capo. E' piuttosto che stiamo vivendo con molte spade sul capo e con mani diverse che, per scopi contrari, lottano per impadronirsi del filo. J. K. Galbraith Copyright di «The Times» e per l'Italia do « La Stampa » Chicago 1968. Galbraith, portavoce di Eugene Mac Carthy per la politica estera, ha appena saputo che i russi sono entrati a Praga (Telefoto A. P.)