Forte spettacolo dalla Danimarca realizzato da un regista italiano

Forte spettacolo dalla Danimarca realizzato da un regista italiano "Ferai,, è la rivelazione del Festival di Venezia Forte spettacolo dalla Danimarca realizzato da un regista italiano L'opera, presentata dal gruppo dell'Odin Teatret, unisce i miti ellenici alle leggende scandinave - E' la storia di Admeto che cerca di dare libertà e amore al suo popolo (Dal nostro inviato speciale) Venezia, 1 ottobre. Non c'è più dubbio, tra co loro che oggi contano nel teatro mondiale, c'è un italiano, Eugenio Barba, che vive e lavora a Holstebro. una cittadina danese di ventimila abitanti nel Jutland settentrionale. Qui, in una vecchia fattoria offertagli, con una piccola sovvenzione annua, dall'amministrazione municipale, Bqrba ha fissato il suo Odin Teatret nato in un «bunker» di Oslo nel '64 e presentato come un « Teatro-laboratorio interscandinavo per l'arte dell'attore » da un regista che è convinto che per cambiare il mondo bisogna incominciare da noi stessi, e che sottopone l'attore a una rigorosa disciplina (« Impari — egli dice — a non farsi sbranare dalla tigre, ma a cavalcarla ») ^esaltandone le possibilità psico-fìsiche e il senso di responsabilità. Se si aggiunge che Barba ha trascorso tre anni con Grotowski, che ne condivìde la concezione di un « teatro povero » (e precario: ogni rappresentazione potrebbe essere l'ultima e l'attore deve considerarla come il suo testamento) e che, senza rinnegare gli insegnamenti del regista polacco, si è conquistata una propria autonomia e indipendenza, si capirà il posto che gli compete in un teatro che faticosamente rinasce, ma talvolta esplode, da un'incessante meditazione su sé stesso. Barba non s'atteggia a profeta né a sciamano, dice di essere soltanto un uomo che si dedica al teatro con l'impegno e la passione che ogni suo simile mette, o dovrebbe mettere, nella professione o nel mestiere che ha scelto. Al festival veneziano, Z'Odin Teatret, il cui nome si richiama al Dio della guerra che bisogna esorcizzare in ciascuno di noi, aveva portato due anni fa Kaspariana di Ole Sarvig. Ora, dimostrando oltre a tutto di schivare le insìdie del manierismo, è ritornato con uno spettacolo completamente diverso, Ferai, « che non è più la libera interpretazione collettiva di un semplice scenario, ma si basa su un testo, interamente scritto, e a quanto assicurano assai bene, dal poeta e archeologo danese Peter Seeberg, anche se profondamente rielaborato da Barba e dai suoi attori, norvegesi, danesi, svedesi e finlandesi (ma c'è anche un'italiana, Marisa Gilberti, che viene da Torino, dalla scuola di danza di Sara Acquarone) che, non si dimentichi, si esprimono ciascuno nella loro lingua. Il titolo è ambiguo, Ferai è tanto una città dell'antica Grecia quanto, nel suo nome latino, un'isola del mare del Nord, e questa ambiguità si riflette nel dramma che mischia i miti ellènici alle leggende scandinave, la tragedia euripidea di Alceste alle cronache medievali del danese Saxo Grammaticus, per narrare come Admeto, guadagnatasi in combattimento la mano di Alceste e la successione al trono, cerchi di dare libertà e amore al suo popolo. Ma questi contadini rifiutano l'una e l'altro, chiedono di continuare ad essere asserviti, preferiscono l'antico e cupo culto dei morti a una religione di fraternità e di eguaglianza (e qui l'accento è indubbiamente cristiano). Soltanto il suicidio di Alceste («Chi più si sacrifica, più obbliga ») salverà lo sposo e il popolo. Non c'è palcoscenico, basta una sala qualsiasi, una palestra o un refettorio (in questa occasione, il ridotto - della galleria della Fenice), le luci sono fisse, gli attori non usano trucco, (ma sanno fissare il volto in maschere indimenticabili) e indossano rozzi costumi di futa cuciti da loro stessi, gli oggetti si riducono a un coltello, che è anche frusta e zufolo, a un manta scolorito, a un grosso uovo che simboleggia il defunto re.' Gli spettatori non possono essere più di sessanta e siedono su due file di panche che si fronteggiano ma delimitano lo spazio scenico soltanto nel senso della lunghezza, una dozzina di metri, e non in quello della larghezza, quattro o cinque metri, perché l'azione si svolge talvolta anche alle spalle del pubblico. Questa semplicità, o addirittura nudità, anzi che diminuire accresce la suggestione dello spettacolo affidata al gioco degli attori che padroneggiano e adoperano con una tecnica stupefacente ogni fibra, ogni muscolo, ogni nervo di un corpo perfettamente addestrato sino ai limiti dell'acrobatismo. La loro mimica è tanto espressiva che poco importa se non si capisce che cosa dicono anche perché la loro voce, prodigiosamente modulata dal grido alla parola, dal lamento al canto, dal singhiozzo alla risata, risolve e per così dire traduce frasi di per sé incomprensibili in puri e chiarissimi suoni. Si stabilisce così tra gli attori e il pubblico un contatto, o una corrente, come se si assistesse a una cerimonia segreta. Eppure, si badi, la rappresentazione non ha niente di ritualistico, nonostante vi galleggino alcuni echi della religiosità arcaica dell'Italia meridionale (Barba è nato lì), e non provoca né violenta lo spettatore. Caso mai lo attira con sé in una specie di discesa agli inferi dalla quale egli potrà tornare purificato e liberato dai suoi demoni. Ma è soltanto una delle tante letture di uno spettacolo che, e anche in ciò consiste il suo fascino, ammette diverse interpretazioni dal momento che non ne accetta o non ne esclude nessuna. A qualcuno, come a noi, Ferai è piaciuto per il suo intenso lirismo e per la sua esaltazione della libertà e della bellezza del sacrificio, ad altri per le volute barocche o le impennate mistiche che fianno creduto di scorgervi, ad altri ancora per il senso di angoscia, o all'opposto di gioia, che ha suscitato in loro, a tutti infine per il rigore e la perfezione di una regìa e di un'interpretazione che ne fanno lo spettacolo sinora più importante del festival e uno dei maggiori avvenimenti di tutta la stagione teatrale europea. Alberto Blandi

Luoghi citati: Danimarca, Grecia, Italia, Oslo, Torino, Venezia