La storia del bandito Mesina in «Barbagia» di Carlo Lizzani di Giuseppe Fiori

La storia del bandito Mesina in «Barbagia» di Carlo Lizzani Un film d'impegno sullo schermo La storia del bandito Mesina in «Barbagia» di Carlo Lizzani Il regista ha ricostruito l'avventura dell'uomo e l'ambiente del banditismo, ispirandosi all'inchiesta di Giuseppe Fiori «La società del malessere» (Vittoria) -— Sociologi, saggisti, giornalisti vanno facendo buona caccia in Sardegna. Ricordiamo, fra i migliori, Gigi Ghirotti («Mitra e Sardegna », Longanesi) e Giuseppe Fiori, del quale ultimo «La società del malessere » (Laterza), interessante anche sotto il rispetto della lingua (il dialetto sardo), ha direttamente ispirato, nelle componenti ideologiche, il film di Carlo Lizzani, Barbagia (alla cui sceneggiatura ha collaborato lo stesso Fiori). Il film è modellato sopra Banditi a Milano, e non per stanchezza ma per naturale simpatia con la materia. Ben prima che la parola «impegno » fosse venuta di moda, Lizzani era già in effetto un regista « impegnato », nel senso che sulla scia del neorealismo prese subito a trattare il cinema come cosa salda, aperta agli interessi « civili »; e pur senza impancarsi a moralista, a tale apertura restò poi sempre fedele. In Barbagia, la regione sarda che nel film è sentita come un'isola nell'isola, un folle dipartimento che si amministra da sé, la piaga del banditismo è scrutata con compendiosa serietà, senza vana ricerca di effetti o conclusioni inedite; e la presa vi è altrettanto robusta che nel film milanese. Se il personaggio del Cavallero è irripetibile, se l'assaltare banche, in piena Milano, è ben altra cosa, sotto il rispetto dello spettacolo, che non il ratto di persona esercitato con tecnica millenaria da una società pastorale, la colpa non è del regista ma delle cose, verso cui Lizzani ha sempre avuto il massimo rispetto. Barbagia ci dà la compiuta parabola d'un Graziano Cassitta, che, mutato nomine, è l'esatta controfigura del famigerato Mesina, atroce, spavaldo e fino a un certo punto irresponsabile fuorilegge. Venuto su da una catena di « vendette » familiari, specializzatosi In evasioni grazie alla propria abilità ginnastica, montatosi la testa con la rettorica del bandito-giustiziere, ma soprattutto maneggiato da una cricca di « basisti » che gli soffiano' le Informazioni, Grazianeddu diventa un professionista del rapimento di possidenti, e si crede invincibile (e per un pezzo lo sarà) tra gli scogliosi anfratti di Sopramonte, ambita mèta di fotoreporter. Poi, favoriti da un suo errore, il dissidio coi complici e infine la cattura, la quale non muta la psicologia del personaggio, profondamente radicato nella terra. Attento alle pagine riflessive del Fiori, Lizzani ha distribuito molto bene l'interesse tra l'uomo e l'ambiente, tra il « ritratto » e il « problema sociale », illustrandone l'arcana connessione; e in entrambi i registri ha serbato una stessa incisiva asciuttezza. Nell'anima del bandito, come in quella dèi suo compagno d'avventure, il picaro Miguel, egli sta con la stessa agevolezza che ammirammo in Banditi a Milano, empiendone gl'interstizi umani, segnandone le romantiche sfumature senza tuttavia mai rettoricizzarle; e in quanto al « problema », il discorso si farebbe lungo, in quanto investe, esso sì, la rettorica oggi stomacosa delle società arcaiche che non vogliono riconoscere l'autorità dello Stato. All'attivo del film, cui non nuocciono certe insistenze che riproducono il ritmo ossessivo della cronaca, è anche da mettere la riuscita del protagonista Terence Hill (un eroe ~ dei « western all'italiana» qui sollevato a dignità d'attore), ben secondato da Frank Wol?, Don Backy e Gabriele Tinti. Cinemascope a colori. 1. p.

Luoghi citati: Milano, Sardegna