La frangia disperata di Roma

La frangia disperata di Roma I PROBLEMI DELLE GRANDI CITTÀ ITALIANE La frangia disperata di Roma Non ci sono i mezzi per dare una casa a ventimila famiglie di « baraccati » - Ma non basterebbe costruire alloggi, né organizzare un'efficace assistenza Ogni giorno duecento immigrati arrivano nella capitale, già povera di attività produttive - E' indispensabile accrescere nel Lazio i posti di lavoro (Dal nostro inviato speciale) Roma, settembre. « Roma scoppierà presto, noi la faremo esplodere »: il grido, quasi un presagio di violenza nella crisi galoppante delle città, concluse alcune sere fa un'assemblea di baraccati dopo l'occupazione dì vecchie case vuote alle spalle del Colosseo. Tuttora senza casa, fanno parte delle schiere più povere ed esasperate dei tre milioni di abitanti delta «grande Roma», imprecisa nelle sue statistiche come nei suoi confini che mutano da Un giorno all'altro. Secondo' l'anagrafe 20 mila famiglie, 60-70 mila persone vivono in baracche costruite con lamiere, tavolacci, rifiuti. Nella sola borgata «Lancellotti » se ne contano tremila. All'Acquedotto Felice, 700 famìglie vivono sotto gli archi e nei dintorni. Hanno una organizzazione efficiente per le loro azioni di protesta. I capi gruppo conoscono le case vuote in centro, non soltanto a Pietralata, al Tufello, al Tiburtino. Pattuglie di baraccati avevano vi-, sitato di notte gli edifici da occupare al Celio, preparando con cura il trasferimento notturno di oltre mille persone nelle case popolari destinate alla demolizione. I piani operativi sono stati studiati con mesi di anticipo. « Se non ci daranno le case occuperemo quelle vuote in Via Veneto, ci accamperemo in Piazza Colonna », gridava all'assemblea un muratore, vissuto per dieci mesi sotto gli archi dell'acquedotto Felice. i Le case occupate Il Comune di Roma affitta 150-200 appartamenti per una parte di baraccati e informa che « il problema non è di sua competenza ». La polizia interviene per far sgombrare gli'occupanti. Si aspettavano interventi politici, essendo impossibile per l'amministrazione capitolina, sommersa dai debiti, affrontare un programma di edilizia a basso costo. Ma quali tensioni sociali stanno intanto salendo a causa della ten- denza (condannata nel rapporto del Centro studi e investimenti sociali) a intervenire con provvedimenti straordinari dopo che le situazioni sono divenute veramente esplosive? « La nostra democrazia deve dimostrare di saper ricostruire la struttura della sua organizzazione urbana », disse J. F. Kennedy, anticipando di dieci anni i programmi di rinnovamento delle città americane (dovrebbero assorbire più dollari della conquista dello spazio). Éoma non è certamente vicina alla. dimostrazione^ né lo sono. Napoli e Palermo, le due ex capitali che non riescono a dare un tetto a .trecentomila sottocittadini, abitanti in baracche, tuguri, case malsane. Il dramma dei baraccati romàni illustra il problema della casa nella Capitale, a sua volta rivelatore di una crisi urbana senza confronti in Italia. Quando i baraccati occupano qualche edificio in abbandono, salgono un gradino dalla provvisorietà alla organizzazione sociale. Compiono una conquista. Eppure la loro nuova vita sgomenta il visitatore, rivelando abissi di povertà. Sulla soglia di una delle case occupate al Celio un giovanotto grasso e cupo, Mauro Lupi, mi dice:'«Olà dormiamo all'asciutto, L'acqua da bere la prendiamo alla fontanèlla. Siamo due famiglie: sedici persone, compresi dieci bambini, in due camere e una cucina. Per vent'anni sono vissuto nella baracca al Portonaccio. Già da ra¬ gazzino avevo i dolori. Ora la mia salute è rovinata, posso lavorare soltanto cinque o sei ore al giorno. Con sessantamila lire il mese come potrei pagare un affitto di trentamila? E i quattro ragazzini, più uno in arrivo? ». 50 mila analfabeti Una studentessa di architettura, pallida e dolce, improvvisata « assistente sociale » degli occupanti, mi informa: le inchieste recenti dicono Che un 1 terzo degli abitanti delle baracche vi risiede da vent'anni, a conferma 'della scarsa mobilità dovuta al basso grado di qualificazione. I ' 1 mila analfabeti di Roma si trovano in gran parte nelle borgate e nelle baracche. VII per cento dei baraccati soffre di malattìe reumatiche, il 10 per cento di tubercolosi. Le febbri intestinali si diffondono fra i piccoli, con l'epatite virale. I topi diventano aggressivi: « Ho comprato un vecchio fucile per difendermi », annuncia un baraccato del Tufello. Il fenomeno, tipico delle città ammalate o in decadenza, non è soltanto romano. A Torino l'allarme per i topi è delle settimane scorse; negli Stati Uniti gruppi di universitari •impegnati nella ricerca e denuncia dei -mali urbani, hanno compilato' ' un curioso cen* simento: un topo ogni due abitanti nelle grandi città. Ma la capitale aggiunge queste prove di disgregazione ad una catena lunghissima, che risale al tempo dell'Unità. Tutto è insufficiente, dalle scuole alle case e alle condizioni igieniche, mentre la popolazione cresce addensandosi nelle baracche, nei tuguri, nelle case abusive. Ogni 24 ore arrivano quasi 200 immigrati, 70 mila all'anno. Facciamo un confronto fra Torino e Roma. Agli inizi del secolo Roma supera i 400 mila abitanti, Torino è a 335 mila. 1951: 1 milione 651 mila contro 721 mila. Oggi 2 milioni 800 mila contro 1 milione 160 mila (tre milioni nell'intera « area romana», 1 milione e 600 mila in quella torinese). Neppure a Roma la «Gescal » e gli altri istituti sono riusciti ad affrontare il problema della casa in modo appropriato: gli appartamenti delle «case popolari» sono troppo cari (sulle 30-40 mila lire mensili) per chi ne ha veramente bisogno e dispone di redditi inferiori del terzo, nella media, a quelli del Nord. Affitti « di mercato » Sotto la pressione di questi giorni si riparla dei 40 miliardi che l'Istituto per le case popolari ha disponibili, dei 25 impegnati dalla «Gescal » e del suo programma di emergenza. Gli òttomila vani del nuovissimo quartiere di Spinaceto verranno assegnati a tamburo battente. Ma si tratta di palliativi: il programma quinquennale di edilizia popolare sui terreni vincolati dalla legge 167 prevedeva abitazioni per 400 mila abitanti, ed erano veramente necessarie. Compresi gli ottomila vani di Spinaceto, per ora non si arriva a trentamila in costruzione o appaltati. Gli impresari privati hanno ben altra capacità di produzione: oltre 141 mila vani ultimati a Roma nel 1968. Come mi dice il vice-presidente dell'edilizia privata, ingegner Gabriele Alciati « si costruisce per guadagnare, a prezzi di mercato », vendendo case che richiedono affìtti insopportabili da chi ne è privo. Sì riapre ancora, da Roma, il discorso nazionale sull'edilizia sovvenzionata e su una politica per la casa che saldi le differenze fra costi e capacità di spesa, che in¬ dirizzi la produzione e freni il gioco speculativo sui terreni fabbricabili. In Italia le nuove abitazioni costruite da cooperative (spesso formate da chi non ha affatto bisogno di essere agevolato) incidono soltanto per il 2-3 per cento sul totale; la media europea è del 30 per cento, in Finlandia si arriva al 53. Ma il flusso perenne di immigrati, alimentato dal Mezzogiorno e, per un terzo, dal Lazio depresso, impone la richiesta di massicci interventi alle origini del fenomeno, per creare posti di lavoro. La congestióne delle prandi, città è problema' ài programmazione nazionale, co¬ me è stato ribadito al convegno di Monterosso anche con riferimento alle migrazioni verso Milano e Torino. I 400 mila posti di lavoro già previsti nel Mezzogiorno sono rimasti, in gran parte, sulla carta. Si aspetta dal 1908 Oggi la capitale appare come un corpo privo di equilìbrio, affamato di case e al tempo stesso di attività produttive che giustifichino e sorreggano la sua crescita. La fragilità del suo impianto economico segna la netta differenza dalle metropoli del Nord. A Torino l'industria contribuisce per due terzi alla formazione del reddito, a Roma non arriva al 30 per cento. A Torino i meridionali arrivano richiamati dall'espansione delle fabbriche, a Roma per il miraggio di un «posto» imprecisabile: su 900 mila « attivi », ben 350 mila sono gli impiegati pubblici. 80 mila i muratori, appena 70 mila i dipendenti di vere fabbriche. Si parla dello sviluppo di aziende industriali dal tempo della legge speciale del 1908: prevedeva una via navigabile Terni - Roma - Ostia, un porto a Ostia, linee ferroviarie, immense aree per stabilimenti. Nel 1918 fu creato un ente apposito; il fascismo lo soppresse nel 1923 per varare una nuova legge nel 1941, rimasta lettera morta. Oggi si progetta seriamente lo sviluppo industriale del Lazio con diversi poli da Civitavecchia a Latina e Frosinone; dovrebbe dare respiro alla capitale. I piani non mancano, ma per realizzarli deve essere rotta la spirale della precarietà, intrecciata con quella del disordine e dello scetticismo. Roma soffre le conseguenze dell'abitudine al rinvio: accetta la malattia come un'abitudine. Mario Fazio (Il primo articolo dell'inchiesta è apparso il 18 settembre). Roma. Quartiere Appio: vita nelle baracche sullo sfondo delie ultime costruzioni (Telefoto «Team»)

Persone citate: Gabriele Alciati, J. F. Kennedy, Lancellotti, Mario Fazio, Mauro Lupi