I baroni diventano industriali di Mario Dilio

I baroni diventano industriali Visita a Lecce, la città più povera della Puglia I baroni diventano industriali I figli dei nobili non vogliono vivere con le rendite dei terreni - Preferiscono investire i loro capitali in piccole e medie imprese - Le prospettive di sviluppo sono favorevoli; il direttore del Consorzio Industriale dichiara: «Lecce, Brindisi e Taranto formeranno in futuro un'unica grandiosa area industriale» (Dal nostro inviato speciale) Lecce, 19 settembre. Da Brindisi, raggiungo rapidamente il capoluogo del Salento percorrendo una veloce superstrada di quaranta chilometri. Piazza Sant'Oronzo è deserta. Ogni tanto un'automobile che passa rompe la monotonia dell'immensa piazza. Sono le 18: è l'ora della lunga siesta e, se non sapessi dove s^no, l'immagine di una pigra città dell'Andalusia sarebbe perfetta. Tento, ma inutilmente, di stabilire contatti telefonici con gli amici che devo vedere. Ma quando comincia a vivere questa Lecce di sera? Dopo un' ora, incontro il segretario generale della Cisl, Mario Scalinci. Tuona contro « la politica efficientista delViri che crea le grandi industrie di base con pochi posti di lavoro, impiegando enormi capitali, ma non le integra con le industrie manifatturiere ». Stigmatizza « l'ambiguità del governo per il protosincrotone ohe, fingendo di indicare due località italiane. Nardo e Doberdò, in realtà tollera che i baroni dall'Università di Trieste falsino i dati togliendo al Mezzogiorno una occasione unica per inserirsi nella tecnologia più avanzata ». Condanna « il sollecito finanziamento della direttissima RomaFirenze, mentre le ferrovie meridionali sono sostanzialmente quelle di mezzo secolo fa». E cita l'esempio del tronco Bari-Lecce, di 150 chilometri, che ha un solo binario, non elettrificato. La provincia di Lecce ha il più basso reddito prò capite in Puglia: 369 mila lire, rispetto alle 474 mila di Bari, alle 437 di Brindisi, alle 477 di Foggia, alle 608 di Taranto. Mi dice l'assessore provinciale Gaetano Gorgoni che Lecce è isolata dalla realtà economica del resto d'Italia. Manca la vivacità di Brindisi e di Taranto, e 11 dinamismo di Bari. Siamo nella città che è stata, nel Sud, l'ultimo baluardo monarchico-missino e che, per interi lustri, ha osannato un sindaco che nella piazza centrale e per le strade amministrava paternallsticamente i leccesi, paghi soltanto di vederlo sempre e di poterlo avvicinare quando volevano. La politica locale è contraddistinta dalla rissa permanente. Nei partiti, le fazioni sono strutturali e, oggi, sono la causa della gestione commissariale del Comune, dopo appena due anni di debole amministrazione della cosa pubblica. L'economia salentina è ancora prevalentemente agricola; ad essa si dedica 11 45 per cento della popolazione attiva. Eccelle la coltivazione del tabacco orientale. Se ne producono circa 150 mila quintali, su una estensione di 12 mila ettari (quella italiana è di 53 mila ettari). Il complesso della forza di lavoro dell'intera provincia è di 303 mila unità, di cui 55 mila, dicono i sindacalisti, sono disoccupati e sottoccupati. A leggere le statistiche si scoprono talune contraddizioni che sono tipiche degli ambienti con una economia preindustriale. Da un recente studio elaborato dalla Svimez, per esempio, si evince che, nonostante il reddito prò capite sia inferiore, e di parecchio, a quello di Foggia, di Brindisi e di Taranto e la popolazione di eguale numero, le automo bili in circolazione aumentano con ritmo frenetico. Nel 1 Salento circolano 70 mila autovetture, rispetto alle 38 mila di Brindisi, alle 49 mila di Foggia, alle 52 mila di Taranto. L'altro fenomeno che caratterizza il Salento è il rapporto impieghi-depositi bancari. Dai 37 miliardi depositati nel 1951, si è passati ai 186 del 1967. Gli impieghi ammontano a poco meno di 85 miliardi, vale a dire il 61 per cento, che è una quota assai modesta, rispetto alla stessa media nazionale. I dirigenti sindacali leccesi affermano che questa è una ulteriore testimonianza del continuo « drenaggio » del risparmio locale verso l'esterno e del paradosso di una provincia povera, con una larga disoccupazione e biso gnosa di nuove iniziative produttive, che esporta capitali in zone e regioni più ricche A differenza delle altre città pugliesi, qui non si è avuta nessuna iniziativa industriale di rilievo proveniente dall'estero. Ma non poche unità produttive sono sorte per iniziativa di imprenditori locali. Nel settore della biancheria intima e delle camicie, operano nel capoluogo industrie che danno lavoro a 2800 operai. Un'azienda produce camicie e pantaloni da lavoro esclusivamente per il ricco mercato della Germania Occidentale. Spesso, in campo industriale, ci si trova di fronte ad uno sviluppo spontaneo. A Casarano sono sorti alcuni calzaturifici, a Galatina si produce cemento in una fabbrica che ha 350 operai, a Carmiano è nato uno stabilimento che- vende macchine agricole in Italia e all'estero. ,A Lecce, il Consorzio per l'area di sviluppo industriale opera su una superficie di 133 ettari e comprende anche gli agglomerati di Gallipoli, Nardo, Galatina e Maglie. Quali sono oggi le prospettive industriali? Fioravante Laudisa, direttore del Consorzio Industriale, si dice convinto che « l'area di sviluppo costituirà nel prossimo futuro un'unica zona di promozione industriale con le vicine aree di Brindisi e Taranto ». La presenza, a Brindisi, dell'industria petrolchimica ha favorito il sorgere in provincia di Lecce di 22 industrie che lavorano le poliresine, realizzando manufatti in plastica destinati sia all'edilizia che ad altri consumi. «Questa realtà — sostiene il dott. Laudisa — conferma la interconnessione economica esistente tra Brindisi e Lecce. Essa rende valida anche un'altra prospettiva: quella dello sviluppo nell'area di Lecce di industrie nel settore metalmeccanico, grazie alla presenza a Taranto del quarto centro siderurgica. Diverse nuove iniziative industriali metalmeccaniche sorte recentemente utilizzano già l'acciaio dell'Italsider ». Le piccole e medie industrie che vanno sorgendo nel Leccese sono il risultato della maturazione della vecchia classe artigianale locale, che vanta in Italia una prestigiosa tradizione. Notevole è il fatto che i giovani figli degli antichi baroni oggi sono più propensi a mettere insieme i propri capitali e rischiarli in una industria, piuttosto che lottare per ottenere una concessione di tabacco e vivere di rendita. Alla TJil, incontro Corrado Rubini e gli chiedo che fine fanno i quindici miliardi l'anno' degli emigrati all'estero. Mi risponde: « Quando tornano a casa, perché i nostri sono emigranti pendolari, su scala europea, comprano case o aprono negozi e botteghe. Tuttavia, noi speriamo molto nella nuova, anche se poco numerosa, generazione di gio¬ vani imprenditori. Se vi saranno anche interventi esterni, specialmente in campo industriale e turistico, altri operatori privati saranno spinti ad operare. Buoni segni sono la recente decisione della Fiat e della Pirelli di creare a Nardo una pista di 5 chilometri per il collaudo di automobili e 'autoveicoli industriali da vendere nel Mezzogiorno e in tutti i Paesi del Mediterraneo e la creazione, per iniziativa della Cassa per il Mezzogiorno, dì un centro polivalente di addestramento professionale ». Mario Dilio

Persone citate: Corrado Rubini, Gaetano Gorgoni, Laudisa, Maglie, Mario Scalinci