"L'URLO" di Natalia Ginzburg

"L'URLO" PENSANDO A MUNCH (E A POLANSKI) "L'URLO" Capisco assai poco di pittura, e raramente guardo a lungo quadri e riproduzioni di quadri. Mi accade però di guardare a lungo le riproduzioni dei quadri di Edvard Munch. Mi sembra un grande e meraviglioso pittore. Penso che il mio modo di guardare i suoi quadri non sia quello di chi ama e intende la pittura, ma sia invece un modo di guardarli assai rozzo, e da romanziere. Essi sono per me come dei racconti d'angoscia. Non voglio dire che tutti i romanzieri siano rozzi nel guardare i quadri: ma il mio modo è rozzo, e la mia curiosità è mossa da sollecitudini che non hanno nulla da vedere con la pittura. I quadri di Munch hanno sempre dei titoli, cosa che mi affascina; guardo ogni quadro ripetendo in me il titolo e scrutando, di là dalle immagini, la segreta storia d'angoscia inafferrabile e dileguante nell'ombra. Credo non vi sia un modo peggiore e più rozzo di guardare un quadro. E tuttavia ho la sensazione, guardando così i quadri di Munch, che l'intensità e la grandezza della sua pittura penetrino nelle tenebre del mio spirito, ignaro e poco amante delle arti figurative, perché non guarderei tanto quei quadri se fossero dipinti diversamente. Di Munch ho saputo che dipinse i suoi quadri più belli fra i venti e i quarant'anni di età; poi, dopo un tentativo di suicidio, fu ricoverato in manicomio; quando ne usci era guarito, visse ancora moltissimi anni (morì vecchio) ma dipinse quadri stupidi; l'angoscia era la sua unica sorgente d'ispirazione; soffocata l'angoscia, si spense in lui anche la grandezza creativa. Fra i suoi ultimi quadri, ce n'è uno che non mi sembra abbia alcun interesse pittorico, ma può avere un interesse psicologico, e da un punto di vista psicologico rivela — pur senza esprimere nulla poeticamente, o pittoricamente — una condizione umana assai grigia e squallida:' l'angoscia soffocata e addomesticata, che non ha più forza né per gridare, né per parlare; che semplicemente dice « buonasera » con la rauca e fievole voce dei malati che si sono riavuti da un delirio. Questo quadro si chiama Fra orologio e letto ed è un autoritratto: si vede un vecchio signore fra un orologio a pendolo e un lettino con coperta a strisce, composto, educato e rigidamente sereno: una composta attesa della morte. Mi pare un brutto quadro, con oggetti esatti e fintamente sereni: degli antichi paesaggi sconvolti da una livida furia, degli antichi tramonti cupi e vertiginosi non c'è più ricordo: i ponti dove incedono figure d'angoscia, i volti lividi e i mantelli neri, sono stati chiusi fuori dalla piccola stanza dove l'uomo può proteggersi dai suoi spettri. C'è poi ancora un altro quadro, più brutto e ancora più squallido: è di nuovo un autoritratto, il pittore siede a tavola e mangia una triste testa di pesce con finto piacere. Munch è morto da tempo, come pittore: gli sopravvive un vecchietto lindo e modesto, che dipinge brutti quadri e ha trovato forse la salute nella mediocrità. Non importa niente, è stato un grandissimo pittore lo stesso; i brutti quadri, o i brutti romanzi che uno può fare non toccano, non sfiorano nemmeno i grandi quadri o le grandi opere che ha dato in passato; finché uno è vivo, i suoi amici e il suo pubblico possono dolersi delle sue nuove brutte opere, chiedersi come è potuta accadere una simile cosa triste, un simile tonfo nella mediocrità; ma dopo la sua morte, comprendiamo che non importa: le sue opere mediocri cadono via in un soffio da lui; difatti in verità non erano niente, erano solo un modo casuale di passare gli anni, come un passatempo di parole crociate o un lavoro a maglia che si lascia in fondo a un divano. Fra i quadri di Munch ce n'è uno che mi sembra meraviglioso. Si chiama L'urlo. E' un famosissimo quadro. Si vede un ponte, un cielo tempestoso rosso fuoco, acque vorticose d'un azzurro d'inchiostro, e una donna che urla. La donna ha le mani strette al viso, gli occhi sbarrati su una visione d'orrore; sullo sfondo c'è un paesaggio livido, ma insieme vampeggiante c frustato da una bufera non si sa se d'arsura o di ghiaccio; due forme confuse di uomini avanzano indifferenti in distanza; la donna getta il suo urlo nel vuoto. Mi sono chiesta mille volte cosa mai è successo a questa donna; domanda imbecille, sia perché non lo saprò mai, sia perché subito dico a me stessa che non voglio saperlo; difatti sento che appena procedo nelle mie congetture, uccido in me qualcosa, ogni congettura è più vile e meno straziante di quell'urlo ignoto. Per tutta la vita, porteremo nelle orecchie quell'urlo, più forte dell'urlo del vento e del frastuono del fiume; per tutta la vita, stupidamente continueremo a chiederci perché urla e a risponderci che non importa; essendo i fantasmi dell'angoscia senza nome né voce, e gl'interrogativi dell'angoscia votati a restare senza risposta, e i luoghi dell'angoscia situati non si sa dove, in un paesaggio della nostra anima in cui brucia non si sa se l'estate o l'inverno. Penso che Munch è forse diventato pazzo perché quell'urlo, da lui stesso fermato sulla tela, gli lacerava le orecchie. La convivenza con i nostri stessi fantasmi, creati dalla nostra fantasia e sorgente per noi di espressione e di liberazione, e dunque di felicità, può diventare tuttavia una convivenza ossessiva, può invadere la nostra vita e sconvolgere la nostra salute psichica; i nostri stessi fantasmi hanno, tra le loro mani, armi di morte. Tutti si chiedono cosa farà adesso il regista Roman Polanski, che specie di film potrà fare; e anch'io me lo chiedo. Cosa può fare un uomo che ha trovato la sua ispirazione creativa nell'orrore, e vede a un tratto l'orrore inondare la sua. vita reale, la moglie assassinata da ignoti col bambino che portava in grembo, gli amici assassinati sul prato della sua casa, in una serie di particolari e su uno sfondo che sembrano il paesaggio d'una sua storia? Mi si chiederà quale rapporto vi sia tra il regista Roman Polanski e il pittore Munch: nessuno; vi è tuttavia un rapporto fra l'angoscia e l'orrore; l'orrore genera angoscia e l'angoscia genera orrore; e, fra Polanski e Munch, esiste forse una qualche remota rassomiglianza nella ricerca dell'ispirazione. Non amo tutti i film di Polanski: ne amo però molto alcuni. Inoltre, ammiro in lui il potere d'incatenare l'attenzione del pubblico: nei suoi film più brutti, meccanici, freddi, triviali, questo potere è sempre presente. Non è poco, in un'epoca in cui regna ovunque la monotonia c la noia, e il disprezzo per l'attenzione del pubblico, che viene reputata, da parte di chi fa romanzi o film e, stranamente, da parte dello stesso pubblico, niente affatto necessaria. Davanti a ogni film di Polanski ho sempre sentito di respirare il respiro benefico, profondo e liberatore dell'attenzione. Come ripeto, questo accade così di rado, ci si annoia sempre; e quando accade, penso che sia giusto rallegrarsene come per aver ricevuto una buona azione. Così, vorrei che il regista Polanski, nonostante la disgrazia atroce che ha avuto, facesse ancora dei film. L'ho visto recitare, l'altro giorno, con sua moglie, in uno film comico sui vampiri: uno dei suoi film riusciti e felici. Guardavo la sua faccia puntuta, maliziosa e lentigginosa: una faccia di furbo e gracile ragazzo ebreo. All'inizio, non facevo che pensare a lui e a sua moglie nella loro vita reale, al destino orrendo che a entrambi è toccato, ed ero percossa dalla pietà; poi, mi sono perduta nella storia del film, in mezzo a un paesaggio di neve popolato di vampiri cenciosi e spettrali. Uscendo, pensavo come sarà difficile per lui ora fare dei film; ridere ancora dell'orrore, giocare con l'orrore, scrutarlo, analizzarlo e pescarne fuori le proprie immagini; pensavo a tutti i suoi film, la ragazza di Repulsione in giro per la città col coniglio scuoiato nella borsetta, l'immobile lago del Coltello nell'acqua, le uova e la scogliera di Cui de sac: i suoi orribili spettri. Il destino sembra avergli detto che l'orrore morde la mano che lo accarezza con troppa insistenza. Povero Polanski. Mi auguro che possa ancora fare dei film: e che anzi riesca a farne di più belli. Mi auguro che riesca a fare del suo orrore — da lui usato spesso come un freddo trastullo di perizia e d'astuzia, con incredula intelligenza — qualcosa di non accarezzato o scrutato ma toccato e raggiunto a spese del proprio essere, col pericolo d'impazzire, pericolo che tutti corriamo e massimamente i poeti: qualcosa che sia puro, essenziale e limpido nei suoi pochi tratti, eterno e votato ad accompagnare per sempre il cuore di chi lo guarda, come L'urlo nella pittura di Munch. Natalia Ginzburg