Il grande barocco genovese in mostra a Palazzo Bianco di Marziano Bernardi

Il grande barocco genovese in mostra a Palazzo Bianco Rivelati al pubblico i tesori di un'arte quasi sconosciuta Il grande barocco genovese in mostra a Palazzo Bianco La rassegna comprende 150 opere di due secoli: da Bernardo Strozzi al Magnasco (Dal nostro inviato speciale) Genova, 5 settembre. Città per vari aspetti riservata, quasi segreta, nel campo artistico Genova è poi segretissima. I superbì affreschi secenteschi, certo dei più belli del Barocco europeo, che fittamente decorano tra stucchi opulenti i fastosi palazzi della Contrada Aurea, poi Nuova, oggi via Garibaldi, i dipinti di quelle dimore veramente regali delle grandi famiglie genovesi, che nel 1607 affascinarono Rubens dandogli il tema della sua celebre opera sui « Palazzi di Genova», sono difficil'-riente visibili, con l'eccezione di «Palazzo Rosso »; e personalmente, in proposito, noi dobbiamo al « Sèsamo, apriti! » della marchesa Cattaneo di Beiforte, gentile accompagnatrice, il godimento, poche ore fa, di rapide occhiate (le quali però saranno concesse anche ai visitatori della mostra che da domani è aperta nel « Palazzo Bianco » fino al 9 novembre). Quanto poi alle collezioni private, ricche di capolavori come forse in nessun'altra città italiana, occorre il passaporto di un nome autorevole per accedervi. Caterina Marcenaro, direttrice delle Belle Arti del comune di Genova, allestitrice di questa mostra e curatrice del suo perfetto catalogo stampato a Milano dal Pizzi (le schede ne furono redatte da I. M. Botto, P. Costa, G. Frabetti, L. Tagliaferro), nello splendido libro edito a Torino dalla « Eri » nel 1964, Dipinti genovesi del XVII e XVIII secolo, si domanda perché questa pittura sia così malnota in confronto a quella d'altrove. Si potrebbe rispondere che una delle cause è appunto la « segretezza» del temperamento ligure. Ma l'ampia mostra di « Palazzo Bianco », iolta l'occasione delle sale rese libere dal temporaneo smontaggio del Museo per un indispensabile ripulimento dopo vent'anni di usura, intende in un certo senso forzare la serratura del prezioso scrigno. Essa infatti s'intitola Pittori genovesi a Genova nel '600 e nel '700; e ciò non sembri una tautologia. « A Genova » vuol significare che delle 148 opere esposte una parte larghissima è stata reperita in collezioni private esistenti in Genova; e per di più parecchie inedite. Avverte difatti la Marcenaro che « uno dei grandi eventi culturali della Genova del dopoguerra » è stato la ricerca, da parte dì appassionati collezionisti e intelligenti mercanti, sul mercato inglese e americano, di dipinti emigrati da Genova nei due secoli precedenti: soprattutto in Gran Bretagna, dove i Valerio Castello, i Grechetto, gli Strozzi, gli Assereto, i Magnasco eran giunti in gran numero, desiderati non meno delle firme allora più famose. Di qui il costituirsi nell'ultimo ventennio di nuove preziose quadrerie sotto l'occhio luminoso della Lanterna. In scala minore, e nell'ambito d'una società, diciamo cosi, più « democratica », si è felicemente ripetuto (e speriamo non s'arresti) il fenomeno che caratterizzò la cultura genovese nel primo ventennio del Cinquecento, stagione in cui cominciarono a formarsi nelle meravigliose dimore patrizie le grandi raccolte artistiche della Repubblica. Con questa differenza però: che allora l'ambizione dei potenti, nel mutato costume della nobiltà mercantile, fu (d'importazione massiccia dell'alta pittura europea » in sostituzione di quella locale, fino a quegli anni modesta. Ora invece sono i maestri genovesi che, quand'è possibile, tornano in patria a convalidare un orgoglio ligure: aver dato all'Italia nel Seicento, insieme con Roma, la sua più valida espressione pittorica, quando la stessa Venezia, la stessa Firenze sembravano inaridite. Gli artisti, da Bernardo Strozzi il Cappuccino (15811644) ad Alessandro Magnasco il Lissandrino (1667-1749) — limiti cronologici estremi — sono 25. Non vuol dunque, il magnifico spettacolo, far tutt'uno con un panorama completo della pittura genovese dei due secoli, legata come s'è detto la raccolta del materiale a una particolare circostanza di collezionismo « a Genova ». Mancano ad esempio il Cartone, il Bertolotto, il Biscaino, presenti nelle precedenti citate mostre; e del già caravaggesco, o gentileschiano Giovanni Andrea Ansaldo, maestro del grande Assereto dopo il Borzone, una sola opera, la inevitabile Deposizione di « Palazzo Bianco », e due solamente, non eccelse, del potente Giovanni Bernardo Carbone, sono forse poche, specie al confronto con le cinque del Tavella, con le due del Cassana, con le sei del Travi, pittori rispettabili ma di medie qualità. Però, al di sopra di qualsiasi « vuoto », quale mirabi¬ lmelsdpdpcdvsi le, travolgente sequenza dì maestri! Turgidi di fantasia, eccezionalmente talentosi nella composizione del quadro, straordinariamente dotati di destrezza virtuosistica, sempre ci appaiono con un fondo di schietta, in qualcuno persin rozza, naturalezza, che costituisce — dice benissimo la Marcenaro — il Leitmotiv della pittura barocca genovese, nella quale difficilmente s'incontrano frange leziose di tardo manierismo, che anzi è, nel suo insieme, risolutamente antimanieristica, e ci tiene « un discorso così eloquente di brada verità », quale uguale non lo parlano, nella stessa epoca, né veneti, né lombardi, né emiliani, né romani, e nemmeno quei veritieri per eccellenza che sono i napoletani. Si comincia col maschio, muscoloso — quand'è caravaggesco e rubensiano —, eppur capace d'ineffabili palpiti luminosi nel Paradiso, Bernardo Strozzi (e chi voglia approfondirsi nella sua arte veda il poderoso volume di Luisa Mortari, Bernardo Strozzi, pubblicato a Roma nel 1966 dall'editore De Luca); col Fiasella così impregnato di naturalismo da dotare di occhiali uno degli assistenti alla Morte del pro¬ feta Ezechia, che per lo meno è un ardito anacronismo; e sì prosegue — stando sui vertici — col grandissimo Gioacchino Assereto (16001649) che « dal più rischioso e artificiato manierismo » derivato dal lombardo Cerano pervenne « ari una più schietta e quasi popolare evidenza pittorica», come scrisse Roberto Longhi; con Giovanni Andrea De Ferrari (15981669), uno dei più forti maestri secentisti italiani « della realtà » (e si osservi qui il Giuseppe venduto dai fratelli e lo stupendo Esaù e Giacobbe dove l'essenzialità del gesto che stringe il patto assurdo, e la « verità spoglia dell'ambiente », paiono anticipare d'oltre due secoli i Giocatori di Cézanne); col Grechetto (c. 1600-c. 1663) immaginosamente eccitato dal dinamismo del Bernini, del quale dipinse con un taglio alla Velàsquez il penetrante ritratto; con Valerio Castello (1624-1659), altro protagonista della pittura genovese; con Gregorio De Ferrari (1647-1726) che la Marcenaro definì anni fa «il più alto forse dei pittori genovesi e il più mal noto, certo il più grande tra i frescanti europei del suo secolo » (e dipinse anche a Torino intorno al 1685, e Andreina Griseri^riuscì a identificare un suo soffitto in Palazzo Reale che lo storiografo Ratti aveva dato perduto); col celeberrimo sfavillante Giovan Battista Gaulli, cioè «Il Baciccio» (16391709); e si giunge al «rovinoso e sconnesso, furente e diabolico e tutto permeato di controriforma » Alessandro Magnasco (1667-1749), il quale getta il ponte che varcheranno Goya e Daumier. Fra queste vette, oltre i già citati, i pittori che, a nostro giudizio, segnano punti di minor tensione nella gloriosa compagine di un figurare serrato e talvolta monotono: Orazio De Ferrari, nelle cui versioni dell'acce Homo (ma per quella al numero 22 del catalogo abbiamo udito un esperto avanzare il nome di Luciano Borzone, tanto lodato dal « celebre Gentileschi », secondo quanto riferirono nel 1768 i biografi degli artisti genovesi Raffaello Soprani e Carlo Giuseppe Ratti), è chiarissima l'influenza del van Dyck e di Guido Reni; il Saltarello e Sinibaldo Scorza, altro pittore ligure in contatto con la corte dei Savoia, sorprendente anticipatore del « vedutismo » urbano; Antonio Maria Vassallo (però si ammiri il suo delizioso Apollo pastore) e Pellegro Piola; Silvestro Chiesa e Giovanni Battista Langetti. Ma la tensione ritorna viva e salda con le squisite eleganze formali di Domenico Piola (1627-1703). Fino aU Magnasco, che in essa appare un genio isolato, si nota nella pittura barocca genovese un ricorrere e un ripetersi di moduli formali che un poco ne limitano l'estro: tanto che è facile per il visitatore non scaltrito la confusione di un autore con l'altro, fitti come sono fra di loro gli agganci stilistici, le derivazioni linguistiche, gli echi di espressioni sottilmente mediate. Conviene tener presente che in questo vasto, sonoro discorso dominano alcune voci sovrane: di Rubens e di van Dyck, della grande pittura spagnuola dal Velàsquez al Murillo, del Caravaggio che fugacemente sostò a Genova nel 1605, ma che da Roma (meta di molti pittori genovesi) proclamava « lo stato ufficiale di guerra alla pittura di maniera ». Marziano Bernardi