Giorno per giorno il racconto dell'eccidio e della prigionia di Sandro Viola

Giorno per giorno il racconto dell'eccidio e della prigionia Parlano i reduci dalla tremenda avventura nel Biafra Giorno per giorno il racconto dell'eccidio e della prigionia Non ci furono due attacchi ai due campi dell'Eni, ma uno solo: a Kwale 3 - Qui avvenne la strage, cui scamparono Alcide Poggi (che riuscì a fuggire attraverso la giungla) Wladimiro Golfare!!., Walter Cattivelli e Claudio Bersani: rimasero indenni sotto le raffiche dei biafrani - Poco dopo i quattordici italiani del campo di Okpai vennero fatti prigionieri mentre tentavano di riparare in territorio nigeriano - L'assalto della folla inferocita nel villaggio di Barakana - La lunga detenzione e il processo su accuse inconsistenti - L'incontro con l'on. Pedini e l'annuncio della liberazione Di ritorno da Abidjan, lunedì mattina. Le due, le tre, le quattro. Le tenebre si stanno diradando, già si intravede il profilo della foresta, gli uccelli cantano tra i rami d'un albero dell'aeroporto. I nostri non arrivano. Il sottosegretario Pedini e i dirigenti dell'Eni sono seduti su una gradinata sotto la torre di controllo, sempre più ansiosi e preoccupati. La stanchezza segna i volti, e ora comincia a trapelare (mista al nervosismo, alla sfiducia) nei discorsi: «Le mie povere coronarie... », mormora Pedini. Le quattro e mezzo. I conti non tornano più. Li stiamo facendo tutti da ore, penna e carta alla mano, attenti che tra un numero e l'altro resti posto per la speranza. Ma ormai i conti non tornano più: l'aereo francese senza contrassegni, il DC 4 F/BRHQ è partito da Libreville alle 20 di venerdì; due ore e un quarto per arrivare sulla pista di Vii, e slamo alle 22,15. Un'ora, mettiamo pure un'ora e mezzo per caricare gli ex prigionieri (che secondo gli accordi avrebbero dovuto trovarsi già alle 22 nei pressi dell'aeroporto) e sono le 23,45; due ore e un quarto per tornare qui sulla pista di fronte all'oceano di Libreville, e diventano le due. Da quell'ora, dal momento in cui siamo usciti dal fabbricato dell'aeroporto e ci siamo messi (Pedini e U suo seguito, i dirigenti dell'Eni, i giornalisti, i poliziotti gabonesi) sulle terrazze e sui bordi della pista, sono passate quasi tre ore. E' spuntata l'alba. Le cinque. Stiamo andando tutti via. L'idea più ricorrente è che padre Bayer e la « Carìtas » abbiano fatto il colpo. Pedini lo dice chiaramente: « Li hanno portati a Sao Tome ». La « Caritas », è noto, ritiene di essere stata la vera protagonista dell'azione su Ojukvou per il rilascio dei nostri quattordici connazionali e dei loro compagni di lavoro. Spinta in secondo piano dalla missione compiuta dal nostro governo con la missione ufficiale dei presidenti della Costa d'Avorio e del Gabon, la <r Caritas » ha cercato all'ultimo momento di riavere un ruolo importante in tutta la vicenda. E' questo che fa sorgere qui, nell'alba di Libreville, l'ipotesi che gli ex prigionieri siano stati portati a Sao Tome. Naturalmente questa è l'ipotesi migliore. L'altra è paurosa: Ojukwu può essersi deciso per un altro dei suoi colpi di scena che hanno reso questa storia così agghiacciante, ed avere annullato la liberazione. Ma è possibile? Pedini si stringe nelle spalle e dice a voce bassa: « In Africa tutto è possibile ». « Arrivano, arrivano » Le 5,25. Stiamo chiamando gli autisti per tornare in città. D'un tratto qualcuno ha un'idea: accertarsi che gli uomini siano almeno a Sao Tome. Il piccolo « Mystere 20» dell'Etti che sta su una pista si leva in volo, fa un largo giro, e a duemila metri di altezza si mette in contatto radio con Sao Tome. « Ci sono? ». La risposta è no. Alle 5,35, quando il « Mystere » riatterra, l'angoscia prevale sul nervosismo e sulla stranchezza. Dunque, non sono partiti, dunque non tornano. Le 5,40. Stiamo uscendo dall'aeroporto, quando un funzionario dell'Agip locale ci corre dietro urlando: «Arrivano, arrivano ». La torre di controllo ha preso contatto un minuto prima con l'FIBRHQ, che ha comunicato: «Gli uomini sono a bordo, siamo su Libreville tra 40 minuti ». Ora, d'un colpo, l'ansia, il dispetto, la paura, sono dimenticati. Gli alti dirigenti dell'Eni sì abbracciano, Pedini ha gli occhi umidi. Eccoli infatti. Ecco prima il rombo del «DC 4», poi l'aereo spuntare da est e infine atterrare. Sì apre la porta, si avvicina la soala, appaiono prima ì plenipotenziari africani, poi l'arcivescovo di Port Harcourt, Okoye, poi loro. Chissà chi è uscito per primo? Forse ne sono usciti due insieme. Rai e Gianmaria, ma la scaletta si è subito affollata e ora è il momento della commozione. Chi piange di più è D'Amico, ma tutti più o meno hanno il fazzoletto in mano. Ronzano le camere da presa, scattano i fìashes (come ronzeranno e scatteranno per tutto il giorno, nell'aereo, ad Abidjan, ma soprattutto a Roma e a Milano), e si comincia, confusamente, a piccoli pezzi, a ricostruire dalla voce di chi l'ha vissuta, la tragica avventura cominciata il 9 maggio nei campi petroliferi dell'Agip in Nigeria. Il primo fatto che sia certo, e che finora è stato controverso, è che non ci furono due attacchi, uno su Kwale 3 e l'altro su Okpai 3, ma ce ne fu uno solo a Kwale 3. Dei quattordici italiani che erano a Kwale se ne sono salvati quattro: Alcide Poggi, Vladimiro Golfarellì, Walter Cattivelli e Claudio Bersani; ma Poggi non vide niente, scappò quando ì biafrani avevano appena raggiunto il campo. «Sparì e lamenti» Sentiamo Bersani: « Ho cominciato a sentir sparare verso le cinque, e poi gli spari avvicinarsi. Quando ho capito che c'erano dei soldati nel campo mi sono nascosto sotto il letto. Non so come, ma il macello deve essere cominciato subito. Sparavano raffiche su raffiche, ho sentito urlare i miei compagni, ho riconosciuto distintamente le grida di Falconi. In quel momento sono stato ferito da una scheggia, ma non mi sono mosso e sono restato lì mentre continuavano gli spari e i lamenti. Un'ora e mezzo dopo, quando ormai non si sparava più, sono uscito dalla roulotte a mani alte. C'erano una quarantina di biafrani giovanissimi, tra i 14 e i 16 anni, e subito cinque o sei di loro mi sono venuti addosso. « Qualche colpo coi calci dei fucili, e subito mi hanno tolto l'orologio, il portafogli e l'accendisigari. Perché mi sono salvato? Me lo sono chiesto tante volte. Credo che sia stato perché era in atto il saccheggio, non facevano che entrare nelle roulottes ed uscirne carichi di roba, per cui ho l'impressione che ormai fossero sa¬ zi. Dal campo sono poi stato avviato nella foresta, verso est ». Il racconto degli altri due di Kwale, Golfarellì e Cattivelli, è identico. I due stavano nella stessa roulotte, e come Bersani si erano cacciati sotto i due letti. Hanno sentito le stesse grida, i lamenti raccapriccianti che ha sentito Bersani, e intan¬ to le ore passavano. Ogni tanto, da fuori, si tentava a calci, a spallate, a colpi di mitragliatore (alcuni dei quali hanno colpito Cattivelli a una natica), di aprire la porta della roulotte. Ma la porta ha fortunatamente resistito. Il giorno dopo, alle 9 di sabato, un paio di biafrani hanno infranto coi calci del fucili la finestra della roulotte. Allora Cattivelli e Bersani sono andati verso la finestra con le mani in alto. Sul campo, prima che i biafrani li avviassero verso l'interno, hanno visto i segni del massacro e del saccheggio. Vediamo ora quello che accadde agli undici di Okpai. Parla Pietro Gianmaria, capo-campo: « Sono stato svegliato da Francesco Tomasoni verso le cinque e tre quarti. Dal campo di Kwale giungeva continuo il rumore delle raffiche di mitra. Siamo stati per tre ore indecisi sul da farsi, poi abbiamo caricato i bagagli sui nostri mezzi e ci siamo avviati sulla strada che, congiungendo Okpai 3 a Kwale 3, porta poi al fiume Ase e al villaggio di Kwale. Avevamo percorso quasi tutti i 4 chilometri della strada, quando dalla foresta sono partiti un certo numero di colpi di arma da fuoco. «Terribile confusione» « Ci siamo arrestati, ed ecco di fronte a noi, a poco più di duecento metri, una ventina di soldati. Man mano che si avvicinavano, abbiamo capito che non erano federali perché non erano in divisa: qualcuno aveva una camicia militare con un calzone qualunque, altri erano in civile, altri a torso nudo. Ci hanno fatto segno di venire avanti, e allora il libanese che era con noi s'è tolta la camicia, che era bianca, l'ha alzata come una bandiera, e siamo proceduti. « Sono stati duecento metri terribili, perché sfilavamo di fianco a uno dei '"H del campo, e potevamo . dere tutto. I cadaveri dei nostri amici, alcuni, non tutti, la terribile confusione davanti alla roulotte, le valigie aperte, i cuscini insanguinati, la roba caduta durante il saccheggio. Avevamo le mani alzate, siamo stati fatti prigionieri. I guer- rlglieri (dalla foresta ne erano usciti intanto un'altra ventina) erano giovani, ce n'era qualcuno che sembrava di 13 o 14 anni. Ci hanno caricato tutti sul nostro "Tigrotto"; uno di loro si era messo al volante, altri ci scortavano, ma dopo un paio di chilometri lungo la strada dell'Agip, abbiamo trovato un tronco messo di traverso e siamo scesi. « Due ore di marcia, una parte sul pezzo di strada che restava, una parte nella foresta, e siamo arrivati al villaggio di Barakana, dove c'era un piccolo comando. Siamo stati subito circondati da un folto gruppo di civili che ci urlavano contro, ci sputavano addosso e ogni tanto ci colpivano a calci e pugni. Ci hanno tolto tutto di dosso, lasciandoci in mutande, poi ci hanno ficcati in una buca aperta nel terreno, profonda due metri e larga un metro e mezzo. Nella buca c'era Bersani. Verso le due ci hanno dato qualche mango e qualche banana, poi verso le quattro io sono svenuto e allora ci hanno portati in una capanna dove, a dire la verità, un ufficiale è venuto un paio di volte nella sera a informarsi se stavamo bene. LI, verso le dieci, ci hanno dato da mangiare pane e formaggio ». Sentiamo ora Barbera, che era stato catturato il giorno prima. « Ero stato preso con i miei due compagni tedeschi nei pressi del campo di Okpaj 4 e da lì eravamo stati trasferiti al villaggio di Okpai. Da qui siamo stati poi portati ad Abracada, dove ho trovato i miei compagni. Sabato sera siamo ripartiti tutti risalendo il fiume Niger e l'indomani lo abbiamo attraversato giungendo in territorio biafrano. L'ultimo tratto sul Niger lo abbiamo fatto su una canoa, perché la lancia non poteva attraccare. Alcuni di noi remavano, altri vuotavano la canoa che faceva acqua da tutte le parti. Giunti a terra, abbiamo camminato un paio d'ore e siamo arrivati in un villaggio dove c'era un grosso distaccamento militare comandato dal colonnello Akusi. Lì siamo stati sette giorni, trattati con umanità anche se il cibo era scarso perché i biafrani ne hanno pochissimo. Passati sette giorni ci hanno caricati su un pullman dicendoci .che andavamo incontro a padre Byrne, della Caritas. Invece ci hanno portati al carcere di Owerri ». Il processo E il processo? Barbera è quello che lo ha seguito meglio, che ha potuto, parlando l'inglese, fare da interprete ai compagni, « La sera del 27 maggio ci è stato portato in carcere l'atto giudiziario con gli undici capi d'accusa e l'ordinanza che fissava il processo per l'indomani dinanzi ad un tribunale speciale. L'ho tradotto a miei compagni, ed eravamo terrorizzati. Nessuna delle accuse rispondeva a verità. Il processo è durato due giorni, sette ore il primo giorno, un paio d'ore il secondo. I capi d'accusa, in base ai quali siamo stati condannati, erano questi: collaborazione con le forze nemiche, possesso e uso di armi da fuoco. Alla fine del processo, subito dopo la condanna, tanto il presidente del tribunale che il più anziano dei nostri avvocati d'ufficio hanno annunciato che avrebbero inoltrato la domanda di grazia. Ma la grazia non veniva, passavano i giorni e ormai temevamo che non ci fosse più nulla da fare. Finalmente mercoledì c'è stata la visita del sottosegretario Pedini, che ci ha dato molto coraggio, e giovedì sera l'annuncio portatoci in carcere che saremmo stati liberati l'indomani ». ;/ ricordo della gioia di quel momento si confonde con quello dell'arrivo. Roma è in vista, mons. Bayer arriva trafelato nel corridoio dopo avere parlato per radio col Vaticano. A Fiumicino c'è il presidente Saragat, dopo si va dal Papa. Uno stupore commosso si dipinge sul volto dei diciotto. Le lacrime verranno dopo, ai primi abbracci dei famigliari. Sandro Viola La vedova di Benito Bonvini, uno dei tecnici massacrati, assiste alta cerimonia funebre