Ford II: business e mercato

Ford II: business e mercato DOVE VA L'ECONOMIA MODERNA ? Ford II: business e mercato Il capo della seconda azienda automobilistica del mondo riconosce i successi degli ultimi governi americani nella buona gestione dell'economia e approva la politica del "pieno impiego" - Ma è ostile alla concertazione d'investimenti, salari e prezzi - Le grandi imprese non sono in grado di dominare il mercato; sono ancora la concorrenza ed i consumatori a stabilire produzione e prezzi (Dal nostro Inviato speciale) Detroit, giugno. In volo fra Washington e Detroit, in una mattina di sole, l'America vista dall'alto sembra un gigantesco quadro op: l'aratura antierosione disegna circoli, spirali, volute bianche e nere attorno ai dorsi delle colline. Un'ora di volo silenzioso in jet, mezz'ora di corsa in autostrada, e sono a Dearborn. Detroit è ancora lontana, da qui non si vede la parata di grattacieli affacciata al Detroit River, lungo il quale sfilano i piroscafi, anche se qui siamo nel mezzo del continente. Tutto attórno al complesso industriale della Ford, vasti spazi aperti, praterie e boschi. Le dimensioni americane sono sempre smisurate. Qui non c'S problema di aree fabbricabili. L'appuntamento con Henry Ford II è per il pomeriggio, c'è tèmpo d'incontrare alcuni dirigenti. Parliamo della «Maverick», la nuova «utilitaria» 2000 eme che costa pochi dollari più della Volkswagen, la «cimice» che il nuovo modello Ford vuole schiacciare. Il 10 per cento del mercato americano è stato conquistato dagli stranieri, soprattutto Volkswagen e giapponesi; una possibile offensiva di altri giganti europei potrebbe creare seri problemi. E' curioso che sia proprio la Ford a guidare la controffensiva contro la Volkswagen, perché la prima « cìmice » nella storia dell'automobilismo fu la « Tin Lizzie » di Henry Ford I, il famoso modello T che poteva aversi « in qualsiasi colore, purché fosse nero ». Come la Volkswagen, anche « Tin Lizzie» durò a lungo, e quando improvvisamente passò di moda, insieme con lei fu lì lì per colare a picco anche la Ford. Ma questi sono tempi lontani; oggi ì modelli Ford sono tanti, e tante le « options » di colori e accessori, che mescolandoli in tutte le combinazioni possibili questa fabbrica potrebbe produrre due milioni di vetture ognuna diversa dall'altra. Ero venuto alla Ford a parlare con Ford perché, fra i temi della ricerca economica, uno dei principali è la grande impresa. Fino a che punto il gigantismo industriale modifica il mercato? E' un bene o un male? E che rapporti ci sono oggi fra il « big business » e lo Stato? Volevo controllare « alla fonte » alcune tesi economiche alla moda. Henry. Ford II mi ha ricevuto in uno studio luminoso e moderno, in maniche di camicia. E' un uomo robusto e abbronzato, con , capelli e favoriti grigi. Ha un modo di fare diretto e businesslike. Mi dicono che sia un eccellente organizzatore. Durante il colloquio ho il tacito sospetto che alcuni dei miei riferimenti alla teoria gli sembrino un po' curiosi; ma si presta gentilmente al mio discorso. Comincio da un tema che Ford, industriale « impegnato», ha trattato in molti discorsi: le responsabilità sociali dell'industriale moderno. Ho in mente un, testo di Gunnar Myrdal che dice: « Assistiamo oggi negli Stati Uniti a un notevole, rapido aumento degli imprenditori illuminati. Questa tendenza può iscriversi fra le cause più importanti del continuo rapido sviluppo e delle riforme intese a sradicare la miseria». Che cosa può dirmi in proposito? «La prima cosa che l'industria ha fatto e fa è di organizzarsi per procurare lavoro ai disoccupati del hard core ritenuti non impiegabili. Qui abbiamo fatto delle cose buone. Ma ciò che possiamo fare dipende dallo stato dell'economia. Il boom ha consentito l'assorbimento del " nucleo duro " di disoccupati, ma costoro sono gli ultimi assunti. Se l'economia declinasse, come risultato della lotta contro l'inflazione, queste persone sarebbero purtroppo licenziate per prime, in base ai nostri contratti coi sindacati in materia di anzianità». Come giudica, il business, la politica economica degli ultimi anni? « E' molto importante che il governo provveda per una situazione di pieno impiego. Questo è stato lo sforzo del governo, almeno a partire da Kennedy. Il clima economico creato negli ultimi anni dalla politica governativa è stato vantaggioso anche per il business. Abbiamo tutti partecipato alla crescita del Paese ». Il braccio « storto » Che pensa dei controlli su investimenti,.salari e prezzi? « Sono contrario. Le forze del mercato sono una guida migliore di qualsiasi direttiva governativa. Le direttive salariali del governo non sono servite a molto, e sono cadute. Quanto al controllo dei prezzi, sia per legge, sia con la "tecnica àeìl'arm-twisting (vuol dire "storcere il braccio", come fece Kennedy agli industriali dell'acciaio) è ingiusto. Solo poche braccia possono essere storte. Anche il mio braccio lo è stato ». Questo è il parere di Fórd,, e di molti altri. La prospettiva dì qualche controllo su salari, prezzi e profitti ha però avuto accogliènze abbastanza positive a una recente riunione del « Business Council », un òrgano di consulenza governativa di cui fanno parte le 100 più grandi imprese del Paese. Continuo: Galbraith dice, nel Nuovo Stato Industriale, che oggi il mercato è dominato dalle grandi imprese oligopolistiche, le quali « lungi dall'essere controllate dal mercato, lo subordinano ai fini della propria pianificazione ». E così « i prezzi, i costi, la produzione e i profitti sono fissati non dal mercato, ma da decisioni pianificato, delle imprese». E' vero 'che il mercato conta ormai così poco? « Se Galbraith venisse qui a vedere come funziona il. lavoro, non sosterrebbe queste teorie. Ha letto i giornali d'oggi? E' morta la " Corvair " della General Motors, l'auto col motore posteriore. La ragione è che la gente non voleva comprarla. Il mercato decide quello che vuole, se non lo vuole non compra e finisce 11. Ci vogliono prezzi concorrenziali e un prodotto attraente, altrimenti il consumatore dice no. Ci sono state oltre duemila marche d'automobili negli Stati Uniti, oggi ce ne sono quattro. Che còsa è successo delle altre? Non ce l'hanno fatta perché non avevano i prezzi giusti e i prodotti giusti per il mercato. La gente ha sempre dei termini di paragone, fra i tanti nostri modelli e quelli stranieri ». Un economista, D. H. Robertson, ha definito le grandi imprese come esempì di razionalità in mezzo all'anarchia del mercato: « Isole di potere consapevole in questo oceano di cooperazione inconscia, come grumi di burro che si coagulano nei siero del latte». Questo è, seibfndò taluni, una buona cosa; ad altri sembra che le ìsole siano diventate continènti, che abbiano troppa potenza. Domando: la parola « capitalismo » ha ancora in America, come un tempo, un suono decisamente positivo, senza riserve? Come è visto il business dal pubblico? Le benefiche tasche «Il Paese ha sentimenti contrastanti verso il business. C'è molta inquietudine sociale, certuni criticano tutto, anche il business. Ma senza il business il Paese non esisterebbe. La gente lavora o per noi o per il governo; e il governo trova nelle nostre tasche il denaro per i suoi dipendenti. Alcuni ci attaccano, per pubblicità o perché pensano che sia necessario per difendere il consumatore. Ma non credo che il pubblico in generale sia di questo parere ». E' migliorata l'arte di gestire l'economìa da parte del governo? « Rispondendo da dilettante, direi di si. Hanno fatto moltissimo, negli ultimi anni, per la buona gestione dell'economia. Noi cerchiamo di, tenerci al corrente di quello che fa il governò; anche se non sempre vediamo la globalità dei suoi problemi e certe cose ci sembrano sbagliate, ciò che è stato fatto dovrebbe, in generale, giovare a tutta l'economia ». Questa è l'economia moderna vista da Dearborn. Il giudizio del radicale svedese Gunnar Myrdal mi sembra giusto. L'incarico affidato da Kennedy a Heller nove anni fa (« voglio che lei educhi il Paese nell'economia moderna») è stato svolto abbastanza bene. Concludo con qualche commento alle tesi di Galbraith, che non ho potuto incontrare perché era all'estero, sulle grandi imprese e il mercato. La tendenza al gigantismo nell'industria è molto vecchia. Prima di Galbraith l'hanno segnalata Berle e Means negli Anni Trenta; Rudolf Hilferding, nel suo « Finanzkapital », imitatisSimo da Lenin, all'inizio del secolo; Engels, nell'v Antiduhring », nel 1877. Questa tendenza viene sempre criticata e insieme esaltata, anche da Engels e Lenin: esaltata perché, nelle grandi imprese, « la produzione priva di piano della società capitalistica cede alla produzione secondo un piano dell'irrompente società socialista », dice Engels. A tutti questi critici-lodatori è sempre parso che la tendenza alla concentrazione fosse lì lì per trionfare, e che le grandi imprese slessero per tirare il collo al' mercato come a una gallina. Parafrasando Churchill, direi: « che gallina! che collo! ». Se questa è un'agonia, certo è molto lunga e vitale, tanto da far dubitare che si sia scambiata per una tendenza crescente quello che è, in realtà, un dato più o meno costante di un assetto di mercato, « imperfetto » rispetto agli schemi teorici, ma pur sempre operante. Sorge il dubbio che Galbraith abbia scoperto cose vecchie, e ignorato quelle nuove. Per esempio: il crescere della concorrenza intersettoriale, « fra acciaio e allumùiio, alluminio e plastica, plastica e cemento, cemento e acciaio », come esemplifica Robert Heilbroner; la formazione di un mercato mondiale e di una vera concorrenza internazionale; l'emergere del settore terziario dell'economia, dei servizi, scuole, ospedali, turismo, trasporti, commerci. Victor Fuchs, teorico della « service economy », ritiene che a Galbraith sia «sfuggito» il fatto che il predominio della grande industria sta in realtà finendo, forse è già finito. Gli Stati Uniti sono la prima « economia di servizi». Da quando Colin Clark scrisse, nel 1940, che «l'economia del settore terziario rimane da scrivere », gli studi di Fuchs e di molti altri hanno illuminato le strane regole di questo nuovo settore portante dell'economia. E' un settore dove domina la piccola e media impresa; dóve proprietario e manager sono spesso la stessa persona; dove sono diffuse le imprese non rette dal profitto; dove i livelli di produzione sono stabili e i cicli tenui o inesistenti; dove il lavoro non è alienante ma molto personale. Tutto il contrario della grande industria. Fuchs ha dimostrato che in America le grandissime imprese « hanno raggiunto l'apice della loro crescita nel 1956 »; poi, la loro porzione del prodotto globale si è stabilizzata o è diminuita. Così, giudicata dal grande industriale, il quale ha che fare con le scomode realtà della concorrenza, come dagli economisti impegnati nelle ricerche d'avanguardia, l'immagine dì una società industriale dove il mercato viene ucciso dal gigantismo del big business appare per lo meno approssimativa e incompleta. Questa è del resto la tesi della celebre replica di Robert Solow a Galbraith. Il mercato, anche se non è quello dei testi sacri dì Smith e Riccardo è duro a morire. Arrigo Levi (I precedenti articoli dell'inchiesta sono stati pubblicati il 5, 7, 11, 13, 15, 19 e 21 giugno). Dearborn (Detroit). Tre uomini, una dinastia: Henry Ford II dinanzi ai ritratti del padre e del nonno (Telefoto)

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