In un mercato senza frontiere le imprese restano nazionali di Mario Salvatorelli

In un mercato senza frontiere le imprese restano nazionali Convegno a Milano sulla politica industriale della Comunità In un mercato senza frontiere le imprese restano nazionali Il Mec costituisce un vero primato mondiale di liberalismo commerciale, anche verso gli altri Paesi - Ma occorre mettere le aziende in condizioni di darsi strutture adeguate alle nuove dimensioni in cui operano - Confronto tra le grandi società americane e quelle europee (Dal nostro inviato speciale) Milano, 19 giugno. L'economia dei sei Paesi del Mercato Comune europeo ha scelto la via del libero e aperto confronto internazionale. I dazi italiani sui prodotti industriali provenienti dall'estero erano in media pari al 30 per cento del valore delle merci importate nel 1958: oggi sono stati portati a zero con gli altri partners del Mec (Germania, Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo) e sono stati ridotti all'11,7 per cento nei confronti del resto del mondo. L'I 1,7 per cento è, infatti, la cosiddetta tariffa esterna che il Mec ha adottato dal luglio dell'anno scorso e « costituisce un vero primato mondiale di liberalismo commerciale », nettamento inferiore al livello medio dei dazi imposti dagli Stati Uniti (17,8 per cento), dall'Inghilterra (18,4 per cento), dal Giappone (25 per cento). Inoltre, con gli accordi presi al «Kennedy Round», la protezione scenderà presto all'8 per cento. Risultati brillanti Questo era lo spirito che animò la creazione della Comunità europea: far sì che il riflesso espansionistico prevalesse sul riflesso difensivo. E i risultati sono stati brillanti. In dieci anni, dal 1958 al 1967, il prodotto nazionale lordo della Comunità è aumentato a prezzi correnti del 111 per cento, mentre Stati Uniti e Gran Bretagna, nello stesso periodo, hanno registrato aumenti rispettivamente del 75,6 e del 70,1 per cento. Inoltre la produzione industriale è salita del 67 per cento, con un incremento lievemente inferiore a quello degli Stati Uniti (69 per cento) ma assai.maggiore di quello inglese (31). Infine, i disoccupati, che nel 1958 erano il 3,5 per cento delle forze di lavoro della Cee, sono scesi a meno dei 2 per cento l'anno scorso. «Ci si può dunque rallegrare dei risultati impressionanti ottenuti dalla nostra Comunità, ma le imprese europee non sembra siano riuscite a darsi la struttura necessaria per affrontare una concorrenza internazionale agguerrita, ricca di esperienza e di fiducia nei propri mezzi. Le imprese, quindi, sono rimaste nazionali in un mercato ormai europeo», ha detto l'ambasciatore Guido Colonna di Paliano, membro della Commissione della Comunità europea, aprendo questa mattina a Milano il convegno internazionale organizzato dal Cismec (Centro studi Mec), sul tema: «La politica industriale della Comunità europea». Presieduto dall'ingegner Enrico Minola, vice-presidente del Cismec, il convegno ha richiamato operatori economici e giornalisti italiani ed esteri, che gremivano la vasta sala dei Congressi della Camera di Commercio milanese. Finora, ha detto l'ambasciatore Colonna, i vari Stati hanno aiutato la testa e la coda del proprio apparato industriale: la testa per ragioni di prestigio (energia nucleare, calcolatori elettronici, in alcuni paesi l'aeronautica), la coda per la necessità di non abbandonare a sé stessi settori un tempo di grande importanza (carbone) o che occupano ingenti forze di lavoro (tessili). Ora è tempo di pensare anche a quelle attività che costituiscono la struttura portante dell'economia, dalla chimica alla metalmeccanica. Non si tratta di aiuti nel senso assistenziale, né tanto meno di tenere in vita artificialmente i rami secchi, ma di mettere le piante più vigorose nelle migliori condizioni di sviluppo. La profondità del gap « Il Mercato comune ha significato solo se dà ai nostri industriali la possibilità di lavorare nella verità », ha detto l'ambasciatore Colonna, ma per farlo essi chiedono « le misure necessarie per incoraggiare le trasformazioni che possono migliorare il grado di competitività globale dell'industria comunitaria ». Ciò comporta una quantità di cose e in particolare incoraggiare le riorganizzazioni interne ed i raggruppamenti sovrannazionali, incentivare la ricerca (ad essa negli Stati Uniti si destina il 6 per cento circa del valore aggiunto, contro meno del 2 per cento in Europa), migliorare le possibilità di finanziamento delle Società per azioni (l'autofinanziamento nei paesi anglo-sassoni ha coperto nel periodo 1960'66 la tota¬ lità dei nuovi- investimenti fissi, contro il 65 per cento in Italia), favorire la riconversione dejla manodopera verso attività maggiormente remunerative, garantire una adeguata formazione professionale sia al livello tecnico che a quello della gestione. Il famoso gap che divide l'Europa dagli Stati Uniti, ha detto ancora Guido Colonna, appare in tutta la sua profondità quando si confrontino le imprese al di qua e al di là dell'Atlantico: delle 500 più grandi società industriali del mondo, 300 sono americane, mentre le italiane sono solo 8; i profitti annui delle cento più grosse società degli Stati Uniti sono pari a circa il 13 per cento del capitali investiti, contro poco più del 7 per cento delle maggiori imprese europee. Inoltre, negli Stati Uniti ci sono 152 cervelli elettronici ogni milione di abitanti, contro 50 in Germania, 32 in Francia e appena 21 in Italia. Altri elementi a sfavore degli europei sono gli elevati costi di emissipne dei prestiti sui mercati dei capitali (negli Stati Uniti fino al 1966 il costo era pari al 6,75 per cento: in Italia al 9,5 per cento) e il livello eccessivo delle spese generali e amministrative (per esempio, in Inghilterra un recente studio ha accertato che ammontano al 10 per cento in media del fatturato, contro il 2 per cento soltanto delle imprese americane operanti in Inghilterra). il veicolo è unico Attualmente più nessuno crede che la soppressione delle barriere doganali basti a creare un mercato unico, ha rilevato l'ambasciatore Colonna. Ogni sorta di altri fattori ostacolano il funzionamento del Mec in quanto mercato omogeneo. Per quanto riguarda norme e legislazioni sulle imposte, sulle società; sui brevetti, il Mec rappresenta ancora la somma di sei mercati separati, dove, molto più di frequente di quanto si creda, « accade che non possa essere utilizzata una spina elettrica quadrata costruita in un Paese perché nell'altro Paese la presa è rotónda ». E' necessario uno stretto coordinamento tra la politica industriale e tutte le altre politiche comunitarie: di bilancio, dell'energia, dei trasporti, monetarie, ha concluso l'ambasciatore Colonna. « E' di capitale importanza che tutte le persone che manovrano le leve dì comando si rendano conto di essere a bordo di un unico veicolo, in modo da evitare che lo si voglia spingere verso desti¬ nazioni diverse e a diverse velocità ». In sostanza, « il compito del pubblici poteri, nazionali e comunitari, dovrà essere quello di orientare con tutti ì mezzi disponìbili ed in particolare con una politica flessìbile di programmazione, lo sviluppo del settori dotati delle maggiori prospettive e per i quali l'economia europea appare meglio predisposta». Non si tratta di fare una politica dirigista, per spingere l'economia europea in un senso piuttosto che in un altro, ma di orientare le j risorse, per evitare Inutili sprechi e preparare gli uomini che, nella economia moderna, costituiscono la « materia prima » fondamentale. Dopo la relazione dell'ambasciatore Colonna, in mattinata e nel pomeriggio hanno preso la parola numerosi intervenuti. Tra gli altri, il prof. Ferdinando di Fenizio ha rilevato che la minore redditività dèlie imprese europee rispetto a quelle americane dipende anche dalla mancata unificazione dei mercati finanziari del Mec e dai più stretti legami che, specialmente nel '68, si sono venuti intrecciando tra i saggi pagati per l'eurodollaro e quelli quotati sui mercati europei. A tutti gli intervènti risponderà domani il relatore generale, a conclusione dei lavori. Mario Salvatorelli

Persone citate: Colonna, Enrico Minola, Ferdinando Di Fenizio, Guido Colonna, Kennedy Round