Le nuove iniziative fermeranno il declino industriale di Genova?

Le nuove iniziative fermeranno il declino industriale di Genova? DA CITTA' PIONIERA A METROPOLI IN CRISI Le nuove iniziative fermeranno il declino industriale di Genova? Un risveglio di spirito imprenditoriale e investimenti stranieri alimentano le speranze per il futuro - I genovesi divisi sul «caso Garrone»: l'industriale investirebbe 25 miliardi in Valpolcevera; ma a quali aziende dare la preferenza? (Nostro servizio particolare) Genova, 19 giugno. La ferrovia e l'autostrada che dalle gallerie dei Giovi scendono a Genova attraversano un paesaggio di camini e di stabilimenti. Lingue perenni di fuoco si levano dalle raffinerie. Case e poveri orti disseccati si intrecciano con fabbriche, capannoni, binari, abbracciando le ultime ville rinascimentali. E' la Valpolcevera, digradante sul porto come una Sesto San Giovanni adagiata alle spalle di Milano improvvisamente immaginata sul mare. Chi getta un rapido sguardo dai finestrini del treno o dell'automobile ha l'impressione di una grande potenza industriale, su un fondo confuso e caotico ma ricco. Eppure alcuni degli stabilimenti più grandi sono vuoti e inanimati da parecchi anni. Altri hanno vita diffìcile. I padiglioni deserti delle Ferriere Bruzzo, la grande fabbrica Mira Lanza utilizzata come magazzino, i condominii che portano il nome dei cancellati stabilimenti Eridania, sono emblemi del lungo tramonto di una capitale decaduta. Genova era stata culla dell'industria pesante e della finanza del Regno Sardo e del Regno d'Italia (la nascita della Banca d'Italia e del Credito Italiano). Fino al 1950 fu seconda soltanto a Milano per numero di addetti all'industria in rapporto alla popolazione attiva, per importanza e varietà di imprese. In passato c'era un po' di tutto tra la Valpolcevera e le « isole rosse » di Sampierdarena, di Sestri Ponente, di Voltri: ferriere, zuccherifìci, molini e pastifìci, fabbriche di automobili fino agli Anni Trenta (la «San Giorgio » era sorta nel Gruppo Oderò per costruire qualsiasi tipo di autoveicolo), di locomotive, di vetture tranviarie e ferroviarie, di grandi motori, di apparecchi elettrici e radiofonici. La chimica dava esplosivi, colori; aveva il primato in Italia per saponi e pellami. La letteratura dialettale aveva modellato il nuovo personaggio del genovese ricchissimo e non più legato alle navi o al piccolo « scagno », imponendo appellativi per metà ironici e per metà gonfi di ammirazione: « bue d'oro », « figlio di Dio », erano un finanziere e un capostipite di zuccherieri, quarant'anni fa. Dopo il '50 Genova subì ristrutturazioni ampie e scivolò nella graduatoria delle città industriali italiane. Da terza dopo Milano e Torino fu sesta nel 1965. Oggi precede di poco Napoli, con 94 mila addetti al settore manifatturiero (più 21 mila occupati nell'edilizia). Ha in comune con Napoli la povertà di medie aziende e l'assenza di una grande industria « trainante », qui non compensata dalle prospettive di un'« Alfa Sud » né di una « Olivetti ». Ben diverso, tuttavia, il reddito dei genovesi. Pur dopo drastiche smobilitazioni industriali, la vecchia ricchezza riesce a fruttare rendite che garantiscono un livello di vita mediamente buono, gonfiando le statistiche: il reddito individuale sfiora le 900 mila lire. Chiusura di fabbriche Resta il declino industriale. Trentamila operai in meno rispetto all'anteguerra. Gli economisti dicono che il fenomeno è tipico dei paesi a tecnologia avanzata: si riduce la parte di popolazione addetta a produrre direttamente, aumenta quella addetta ai servizi (più del 50 per cento negli Stati Uniti, come annotava Einaudi quindici anni or sono). Ma a Genova non c'è stato un riassetto dovuto alla comparsa dell'automazione, alla fioritura di « servizi » essenziali e moderni (dalla ricerca scientifica a quelle di mercato). Si è avuta semplicemente una sequela di chiusure o di trasferimenti di fabbriche, e almeno 10 mila operai sono diventati postini, venditori ambulanti, fattorini, artigiani, titolari di minuscoli negozi, cosi fittamente polverizzati nel tessuto urbano da contrassegnare senza equivoci un'economia di ripiego. Colpisce la parziale scomparsa dalla scena genovese di autentici imperi privati. No- mi che dominarono i primi decenni dell'Italia unificata, come Oderò, Bombrini, Orlando, Perrone, Raggio, Bagnare, Bruzzo, sono oggi ignorati fuori dei confini municipali (si conoscono solamente i Piaggio dei diversi rami, i Costa, e alcuni grandi armatori). Erano fra i protagonisti di un'industria nata per volere di Cavour dopo i primi interventi dei Rothschild e dei capitalisti tedeschi, divenuta prospera e gigantesca all'ombra del protezionismo. Rinascita artificiosa L'« Uva » nacque per costruire lo stabilimento di Bagnoli traendo il massimo profìtto dalla legge speciale e accrebbe la potenza dei siderurgici genovesi mentre le tariffe doganali erano congegnate in modo tale da indurre le fonderie inglesi a produrre rottami per venderli in Italia, come ricorda Mack Smith. Ancora il protezionismo diede enormi fortune agli zuccherieri. L'«Ansaldo», nata con sovvenzioni della Banca Sarda, si ingrandì non per fornire mercati ma per dare al Regno d'Italia la marina da guerra voluta da Benedetto Brin. Divenne un colosso, senza preoccupazioni di costi, nel 1915-18: 50 mila operai, dalle navi ai cannoni e agli aerei. All'« Ansaldo » appartenevano là « Cogne », la « Thuile », le « Acciaierie di Cornigliano », l'« Elettrosiderurgica di Aosta », un'intera fiotta. Dopo la guerra crollò: meno di 10 mila occupati nel 1921. E crollò l'« Uva». Il fascismo provocò una rinascita artificiosa delle grandi industrie genovesi, con nuovo regime protezionistico e con fini prevalentemente bellici o di prestigio (navi come il «Rex»). Nuovi crolli dopo la seconda guerra mondiale. I colossi di Milano e di Torino si indirizzarono verso la conquista dei mercati. A Genova fu ben difficile convertire aziende nate e vissute per decenni in un'economia artificiosa, fondata su commesse militari o su sovvenzioni statali. Molti pesi nuovi furono addossati all'Iri. La « San Giorgio » passò in mano pubblica con 12 mila operai e senza alcuna prospettiva. I suoi dirigenti tentarono di far concorrenza alla « Leica » producendo macchine fotografiche: un disastro. Povertà di aree Oggi la « Nuova San Giorgio », recentemente suddivisa in due aziende (una per macchine tessili, una per l'elettronica), ha impianti e pro- duzioni eccellenti, ma occupa soltanto 1500 persone negli stabilimenti genovesi. Il suo esempio conferma il radicale mutamento avvenuto a Genova: le tecnostrutture sono Iri. Le aziende del gruppo a partecipazione statale hanno assunto una funzione motrice sul piano delle innovazioni tecnologiche ed hanno i grandi stabilimenti: centro siderurgico « Italsider » ( 10 mila occupati) con sede direzionale per tutta Italia, cantieri''navali già «Ansaldo», rimodernati ed oggi in fase molto attiva, poi « Nuova San Giorgio », « Asgen », « Ansaldo Meccanico - Nucleare », « C.M.I. » (parti di impianti industriali), con un totale di circa 30 mila dipendenti. Gli imprenditori privati, non molto dinamici, ebbero ostacoli nella povertà di aree accessibili e nell'isolamento di Genova, servita da pessime comunicazioni fino a pochi anni fa. Furono attirati da altre regioni italiane dove si offrivano sgravi fiscali, terreni a basso costo, crediti agevolati. L'impianto industriale di Genova si trovò cosi fondato su alcuni pilastri Iri e su una nebulosa di 11 mila piccole aziende manufatturiere: quasi 5000 hanno meno di tre dipendenti,' 9450 non arrivano a 10. Gli stabilimenti privati di un certo peso si contano sulle dita della mano. Un cantiere di riparazioni in porto, la « Marconi », con partecipazione britannica, la petrolifera « Garrone », il biscottificio « Saiwa », superano o sfiorano il limite dei mille addetti. Gruppi potenti come quello della « Mira Lanza » hanno trasferito le loro fabbriche a Latina, nel Sud, in al tre regioni settentrionali (si parla di un insieme di investimenti genovesi per oltre 500 "miliardi). L'esodo, non ha avuto compensi nella sperata fioritura f locale di aziende medie di avanguardia, tali da richiedere spazi contenuti occupando un alto numero di specializzati. Quali prospettive? Se tale è il. passato, quali prospettive si aprono per l'industria a Genova? Le schiarite locali sono recenti. Vengono da un risveglio di spirito imprenditoriale" che porta nuòvi nomi alla ribalta, anche con partecipazioni straniere. Un esempio di questi giorni: la « Coppers », a capitale americano, decide di investire 2 miliardi nello stabilimento della Valpolcevera (parti speciali per motòri), con previsione di raddoppio dei 300 addetti. Si scopre che la povertà di aree non è assoluta e Riccardo Garrone propone una raffineria sui 20 ettari rimasti vuoti in Valpolcevera dopo la chiusura delle Ferriere Bruzzo e del Saponificio Lo. Faro. Respinto da Novi Ligure (dove però sembra sia in corso un ripensamento) Garrone investirebbe 25 miliardi in Valpolcevera, destinando 30 mi la metri quadrati ad aziende con alto indice di occupazione (non si sa quali, a quali condizioni) e 35 mila metri quadrati a impianti sportivi, verde pubblico, sedi di attività culturali. La città è divisa, come capita puntualmente in mancanza di un piano che indichi quali sono gli usi migliori del territorio. C'è chi vorrebbe la raffineria, anche se occuperà soltanto 100 persone, e chi vorrebbe sapere se la stessa area non potrebbe attirare insediamenti più redditizi. In questi giorni i genovesi .propongono e discutono sul « caso Garrone » fino alio stremo. Mario Fazio La zona industriale genovese nella Valpolcevera. Sullo sfondo le case di Sampierdarena e la « Lanterna » (Leoni)