Le responsabilità della scienza nell'inquietante, favoloso Golem

Le responsabilità della scienza nell'inquietante, favoloso Golem Il teatro di prosa al «Maggio» fiorentino Le responsabilità della scienza nell'inquietante, favoloso Golem Il regista Fersen ha ripreso un'antica leggenda boema, per suggerire una polemica d'attualità (Dal nostro inviato speciale) Firenze, 11 giugno. ' Cinquanta, sessanta sedie di ogni foggia, rischiosamente ammonticchiate sul palcoscenico della Pergola: quanto basta alla fantasia di Emanuele Luzzati per inventare una Praga sghemba e delirante come la scenografia di un film espressionista, formicolante di ebrei chagamani, - rintronante di grida di minaccia e di dolore. Non è la Praga di Kafka, poiché siamo nei primi anni del Seicento, ma la ricorda, tanto più che sul cocuzzolo di questa precaria piramide confluiscono in uno smisurato tono le inquietanti architetture del castello imperiale di Hradscin, lo stesso che ha ispirato un celebre romanzo kafkiano. In basso, i tenebrosi sotterranei degli alchimisti, il ghetto, il tempio, la scuola talmudica e gli altri luoghi dell'azione di Golem, unico spettacolo di prosa del «Maggio» di quest'anno. In Golem, da lui scritto e diretto, Alessandro Fersen continua il discorso sul teatro ritualistico iniziato da più di un ventennio con Lea Lebowitz, ma cerca di arricchire le sue ricerche formali, abbastanza solitarie da noi e spesso precorritrici di recenti tentativi, con un contenuto « politico » e scopertamente polemico. Il tema è" infatti la responsabilità della scienza e i suoi rapporti, e le sue tentazioni, con il potere. L'una è rappresentata dal rabbino, che per proteggere la sua gente dalla furia dei pogroms soffia una parvenza di vita in un informe gigante di argilla, il Golem appunto, l'altro s'incarna nel nevrotico Rodolfo d'Asburgo che puntella la sua insicurezza con un codazzo di astrologhi, maghi e alchimisti. Fersen si chiede: è possibile, e anche augurabile, una alleanza, tra scienza e- politica? E quali ne sono i pericoli, sia che una parte soverchi l'altra, sia che procedano concordi ad ottenebrare ed a condizionare le menti e le coscienze degli uomini? Allarmanti interrogativi, ai quali dà minacciosa consistenza il sottile alchimista Hyeronimus che vagheggia una repubblica platonica guidata d,a sapienti e che per realizzarla proporrà al rabbino, di unirsi a lui. Ma questo, che già si è accorto della iattanza che il Golem ha infuso negli ebrei e del; rischio che un'arma, ideata per difendere una minoranza oppressa, diventi imo strumento di oppressione, medita di ricacciare nel nulla la sua creatura.: E quando Hyeronimus, in un maldestro tentativo di impadronirsi della formula cabalistica che può guidare col pensiero il Golem, lo scatena, per i vicoli di Praga in uh incubo di distruzione e di morte, il savio rabbino non ha più dubbi e annienta il suo fangose automa. Privato del suo scudo, il ghetto ripiomba nei suoi ancestrali terrori, ma la scienza non sarà asservita al potere né asservirà l'umanità. Ma fino a quando? « Viviamo in tempi — come dice un personaggio del dramma — in cui l'utopia del sabato sera è la realtà del lunedì mattina ». E' chiaro il monito che Fersen, avvalendosi di un'antichissima leggenda che ha già nutrito il teatro, il romanzo e il cinema, rivolge a chi ha le chiavi dell'energia nucleare e, insieme, della biochimica, della cibernetica, della neurochirurgia, insomma di tutte quelle scienze che, usate con intenti malvagi, potrebbero attentare alla libertà umana. Riaffiorano i consueti temi della ribellione della creatura al creatore, dell'apprendista stregone travolto dai suoi esorcismi, della diffidenza millenaria che gli artisti covano per gli scienziati, spesso senza rendersi conto che, se i tecnici indugiassero in nobili dubbi sulle conseguenze delle loro ricerche, saremmo ancora all'uomo delle caverne, incerto se affilare o no la sua scheggia di pietra. Ma, indubbiamente, sono problemi tormentosi e niente affatto immaginari. Nessuno, scienziato o no, può fare a meno di porseli. Soltanto, gono qui prospettati con un certo schematismo e non senza candore, in uno spettacolo dove il trasparente didascalismo, la parsimonia, o forse è pudore, degli effetti, e la mancanza di una sostanziale progressione drammatica suggeriscono di chiedersi perché, ancora una volta, un regista d'ingegno non abbia trovato un drammaturgo (già, ma dove sono?) per dare corposità ai suoi fantasmi poetici. Eppure il testo non è sempre evanescente: talvolta è arguto, spesso polèmicamente efficace, delinea con acume i conflitti dei protagonisti, tra loro e con sé stéssi, e almeno nella figura dell'imperatore (ma anche Hyeronimus ha un suo fascino ambiguo) trat¬ teggia un carattere non convenzionale. Del resto, quando il testo vacilla, ecco pronto a sorreggerlo la regia ricca di estri e di invenzioni del Fersen che compone e scompone i suoi gruppi con esattezza di ritmi, offre un brivido con quell'antenato di Frankenstein a cui somiglia il suo bendato fantoccio (dentro c'è, stoicamente. Nadir Moretti), introduce danze popolaresche e soprattutto canti e lamentazioni ebraiche che il coro istruito da Lydia Agosti (sorprendenti solisti Violetta ■Chiarini e Gianfranco Mari) rende Con potente suggestione e che co¬ stituiscono i momenti più intensi del pittoresco spettacolo,, Ad esso, e alla sua riuscita che è stata felice con molti applausi e chiamate per tutti, contribuiscono i rutilanti o, secondo i casi, stinti costumi del già lodato Luzzati e, con là folta e addestrata figurazione, attori di talento come Antonio Crast^ composto e solenne rabbino, Glauco Mauri, che al personaggio dell'imperatore presta tutta la sua tortuosità e la nevrastenia che esso richiede, e ancora la disinvolta Nita Laurenzi, lo Spadaro, il Reali e altri. Ma una citazione particolare merita qui Mariano Rigillo non tanto per la sua recitazione, d'altronde calibratissimà, dell'alchimista Hyeronimus, quanto per aver sostituito, nel giro di 24 ore, imprimendosi nella mente la parte con una rapidità e una sicurezza che i suoi stessi colleghi hanno definito « mostruose », lo sfortunato Carlo d'Angelo, vittima di una rovinosa caduta alla vigilia dell'esordio. Sono i miracoli del teatro, spesso i più probanti, e in ogni caso più rasserenanti, di quelli dei cultori dell'alchimia e della cabala. Alberto Blandi

Luoghi citati: Firenze, Praga