La fede difesa dai carabinieri di Raniero La Valle

La fede difesa dai carabinieri Uomini e religioni La fede difesa dai carabinieri Se il ricorso in Cassazione sarà respinto, Fabrizio Fabbrini entrerà di nuovo in carcere per scontare una condanna a due mesi di reclusione inflittagli dal Tribunale di Roma per aver interrotto un sacerdote che nell'omelia della Messa parlava degli ebrei secondo le vecchie categorie del « deicidio ». Nelle patrie galere Fabbrini c'è già stato per sei mesi, in seguito a una condanna del Tribunale militare per obiezione di coscienza; anzi ci sarebbe stato per venti mesi se non fosse sopravvenuto un indulto che gli procurò la sospensione condizionale della pena residua; ora, con la nuova condanna, Fabbrini ha rischiato di dover scontare anche quanto restava della pena precedente (e così avrebbe voluto, Vangelo e Codice alla mano, il Pubblico Ministero), ma il Tribunale ha capito che c'è un limite a tutto, ed ha rinunciato a imporgli il cumulo della pena vecchia e della nuova. Dal punto di vista della fede, andare in prigione per motivi di coscienza è del tutto regolare, e perfino confortante; il Signore lo aveva predetto ai suoi discepoli, e la previsione si è avverata nella storia con abbondanza anche troppo generosa; ci hanno pensato i poteri civili di ogni colore, e talvolta la Chiesa stessa, con o senza l'ausilio del braccio secolare, a dare adempimento a questa profezia. Sicché Fabrizio Fabbrini non è il primo, e certamente non sarà l'ultimo, a pagare con la prigione l'esercizio della libertà conseguita nella fede; questo fa parte della logica del cristianesimo, che rispetta la legge, ma ha dichiarato lo spirito superiore alla legge. Ora, che queste cose succedano, quale che sia il giudizio da dare sul valore oggettivo del singolo comportamento, è un fatto positivo, perché ci ricorda, in questi tempi dimentichi, che la vita di fede ha un costo, che in termini umani può essere anche assai elevato; siamo abituati a considerare invece la religione come una garanzia di sicurezza, di cui ciascuno ritira la propria parte a buon mercato all'offerta domenicale; uria specie di «pillola della felicità », come scriveva Thomas Merton, per cui non | ci si può t lamentare se poi cede ad aitri prodotti concorrenti, più economici e più efficaci. Tutto questo naturalmente non vuol dire che Fabrizio Fabbrini abbia fatto bene a eccedere nella sua reazione a un'omelia che lo aveva ferito nel suo sentimento religioso, chiamando « buffone » il sacerdote che parlava; è vero che anche il Signore non risparmiava i termini, quando chiamava « razza di vipere » gli scribi e i farisei del tempio, ma si deve riconoscere che era un po' diverso il titolo e l'autorità in base a cui parlava, e a quel punto aveva già accettato di salire sulla croce. Ma il vero problema aperto da questo processo e dalla relativa condanna va ben al di là dell'episodio e della persona di Fabbrini. Infatti, facendo ricadere l'interruzione di Fabbrini all'omelia del celebrante nell'ipotesi prevista dall'art. 405 del codice penale, che contempla il reato di «turbamento di funzioni religiose del culto cattolico », si è aperta la strada a due interpretazioni diverse della legge, che portano ambedue a conseguenze aberranti per lo Stato e per la Chiesa. I dottori della legge Secondo la prima interpretazione, l'imputato è punibile se si può accertare che le parole del celebrante erano conformi all'etica comune e all'autentica dottrina della Chiesa, così da non legittimare la protesta contro di esse. Questa strada è stata seguita dal pretore che in primo grado ha assolto Fabbrini, ritenendo la sua reazione giustificata dall'omelia del sacerdote, che aveva « contraddetto e trasgredito l'etica corrente e l'attuale dottrina della Chiesa attinente ai rapporti tra cattolici ed ebrei »; e la stessa strada ha seguito il Pubblico Ministero che, nell'appellare contro tale sentenza, ha sostenuto, citando la Bibbia e il Concilio, che quell'omelia era del tutto d'accordo con Scrittura, tradizione e magistero della Chiesa. L'assurdità di una legge che costringa i magistrati deila' Repubblica a trasformarsi in esegeti e giudici della fede è stata già sottolineata da Carlo Casalegno su queste colonne; e il cardinale Pellegrino, nella sua lettera pubblicata martedì da La Stampa, si è detto allibito « leggendo lo scritto di un magistrato che si presenta quale garante della legittimità di un atto compiuto da un sacerdote cattolico nell'esercizio del suo ministero ». Così, nel giudizio di secondo grado è sembrata prevalere un'altra interpretazione della legge, secondo cui qualunque interruzione, a prescindere da ciò che si dice dal pulpito, integra il reato di turbamento della funzione religiosa: « Cosa accadrebbe in una chiesa — ha detto il presidente del Tribunale all'imputato — se 5 o 10 fedeli facessero come lei? ». La Chiesa del silenzio Ma questa interpretazione è ancora peggiore della prima; infatti fa arbitro lo Stato di decidere che l'unico modo perché non sia « turbata » una funzione religiosa è che tutti stiano zitti. Ora, siamo in molti a credere che la partecipazione dei fedeli alla liturgia, che si sta ponendo in termini nuovi nella Chiesa, dovrà alla fine trovare i modi appropriati per esprimersi non solo nei gesti e nelle formule rituali, ma anche nella parola viva, che è il tramite normale della comunicazione tra gli uomini. Tutti sanno il disagio che si avverte quando ci si trova indifesi e muti, di fronte a certe omelie che, pur in buona fede, appaiono non di edificazione, ma di turbamento della coscienza religiosa; e ci si chiede se è giusto che l'assemblea dei credenti sia l'unica assemblea in cui le parole degli uni sono del tutto incondizionate, del tutto sottratte al vaglio degli altri. E' chiaro che finché non si saranno creati una tradizione e un costume per questa nuova circolazione della parola nella Chiesa, ci saranno tensioni, errori, tentativi più o meno felici. Ma vorremmo che questa fosse una cosa da regolare con la Chiesa e nella Chiesa, non con lo Stato. Che i cristiani facciano della loro Chiesa una « Chiesa del silenzio » è. grave; ma è ancor più grave se ciò avviene per decretò di Stato, sotto la tutela della legge penale. Raniero La Valle

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