Non basta una bella regia per "II crack,, di Roversi

Non basta una bella regia per "II crack,, di Roversi LA COMMEDIA AL PICCOLO TEATRO DI MILANO Non basta una bella regia per "II crack,, di Roversi Lo scrittore ha presentato una vicenda da vecchio teatro borghese, ambientata nella civiltà industriale, con un pizzico di contestazione - Lo sforzo del regista Trionfo e degli interpreti, guidati da Giovampietro (Dal nostro inviato speciale) Milano, 3 aprile. Roberto Roversi, assicura il programma dello spettacolo presentato al Lirico dal « Piccolo » milanese, ha trovato i personaggi per « Il crack » sulle poltrone e nei palchi di un grande teatro d'opera emiliano. Tira infatti nella commedia un'aria ottocentesca, il primo spiffero è già nel titolo: chi usa più una .parola che 'ricorda immediatamente austeri signori in cilindro e finanziera? Anche l'impianto drammatico discende dagli schemi più logori del vecchio teatro borghese, tuttora vivo e vegeto, come si sa, sotto i più vari travestimenti, e anche senza. Ma qui l'imitazione è intenzionalmente parodistica, anche se non si capisce fino a che punto e, soprattutto, se -era la più adatta per rappresentare, dice l'autore, « il resoconto di un'esecuzione... Non c'è il morto, ma comunque si decreta e si compie la fine di un uomo ». Quest'uomo è «il padre», che subito appare nel fulgore della sua gloria di industriale padano in ascesa-mentre, circondato da ministri e vescovi, inaugura la sua nuova fabbrica di trattori. Per un po' tutto va a gonfie vele, poi spuntano le difficoltà. Le macchine si ribaltano, i concorrenti si coalizzano, incomincia la recessione. E, sul più bello, le banche tagliano i. crediti. E', appunto, il crack. Ma venisse presto, almeno. E invece no, ci vogliono due atti buoni, con interminabili riti -mondani, colazioni d'affari, lunghissime sedute di consigli d'amministrazione che, nonostante i risvolti satirici, denunciano il difetto più imperdonabile della commedia: non tanto la goffaggine o l'ovvietà, che si potrebbero anche sopportare, quanto la noia. Tanto più, che, quasi per non andare per le spicce, s'incontrano anche quadretti familiari con scambi di mogli tra padre e figlio che davvero non hanno nulla di nuovo, anche se non si trovano nei repertori dell'Ottocento. A questo punto potrebbe anche calare il sipario. Ma Roversi ha scritto una coda, 0 forse un'altra commedia, e l'ha appiccicata al suo « Crack » per ficcarci dentro la contestazione giovanile che è il prezzemolo del teatro d'oggi, ma qui non aggiunge alcun sapore a una vicenda già condita in molte salse. Avviene infatti che l'industriale, finito in carcere meno per colpa sua che per « un mondo che non perdona neppure a se stesso se non ci si attiene alle regole che lo governano », si vede arrivare in cella, arrestati e debitamente pestat4, cinque ragazzotti che gli rivoltano sotto il naso l'universo, presso a poco come Copernico quando scoprì che il Sole non girava intorno alla Terra. Non è chiaro tuttavia che cosa vogliano questi nuovi copernicani che alle rivoluzioni fatte sinora dai vecchi s'accingono a sostituire quella fatta dai giovani. Sì arriva persino a sospettare che l'autore abbia voluto prenderli in giro piuttosto che esaltarne le nuove idee. Nella prima ipòtesi la caricatura sarebbe però confusa e ambigua, nella seconda avrebbe ragione lo spettatore che ieri sera gridava: « Infantilismi ideologici! » In ogni modo, tutto si conclude con un grottesco rovesciamento del « Fedone » platonico: Socrate, cioè l'industriale, invece di bere la cicuta, torna in libertà, i suoi' discepoli, cioè 1 contestatori, rimangono in galera. Alla sua seconda commedia (il «Piccolo» gli ha già rappresentato due anni fa «Un- terdenlinden »), non sembra, anche questa volta, che il Roversi possa essere complimentato se non per l'originale impasto linguistico con il quale, lavorando criticamente su diversi piani a seconda dei personaggi e delle situazioni, ottiene effetti abbastanza notevoli per una drammaturgia come la nostra dove il problema della lingua è sempre così assillante, ma anche rischia di accrescere la monotonia quando, come fa troppo spesso, ripete in tre o quattro modi lo stesso concetto (« Indugiamo sui particolari, ne guardiamo i singoli aspetti, spigoliamo le foglie» e così via). Di questa molteplicità di stili ha tenuto conto Aldo Trionfo in uno spettacolo che avrebbe meritato un testo migliore per la pazienza e l'intelligenzu che il regista vi ha profuso. Intanto ha fatto la parodia non del melodran. ma, s'intende, quanto dì una vita vissuta come in un melodramma (che è, purtroppo, un costume abbastanza italiano) rovesciando nella colonna sonora approntata da Sergio Liberovici struggenti j melodie verdiane e ammucchiando sulla scena divertentissimi fondali e costumi da opera lirica. Ma nel secondo atto', mutata la situazione, ha lavorato di cesello preferibilmente sulle asettiche e periate scenografie di Giancarlo Bignardi, e nel terzo atto ha manovrato con perizia soprattutto le luci, un campo in cui j bravissimo. Purtroppo gli sforzi del regista non sono assecondati da tutti gli attori, per la maggior parte al di sotto dì una prestazione appena dignitosa. Tra gli altri, Renzo Giovampietro si destreggia con la consueta autorità e finirebbe in bellezza con un vibrante monologo se poi nel terzo atto non dovesse aggirarsi come un fantasma, non gli manca nemmeno il lenzuolo, tra quei giovani matti. Gianni Galavntu, Angela Cardile, il Marcuccì, io Schirìnzi, forse qualche altro ancora, fanno quello che possono, o che vogliono. Pubblico irrequieto e insofferente. E alla prima, tra i non troppo convinti applausi, non sono mancati ì dissensi. Alberto Blandi

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