Ritrovati a Ur i segni del Diluvio universale di Francesco Rosso

Ritrovati a Ur i segni del Diluvio universale Viaggio nel passato del Mediterraneo Ritrovati a Ur i segni del Diluvio universale (Dal nostro inviato speciale) ■ Ur dei Caldei, marzo. Una sterminata, piatta distesa desertica e, in quel giallo allucinante, un solo punto di riferimento, la ziggurat possente, la torre sacra comune a tutte le città mesopotamiche, di cui sarà più opportuno parlare quando arriveremo a Babilonia. Qui proprio mentre faceva scavare le fosse per delimitare l'area della ziggurat, ora restaurata in parte, l'archeologo inglese Léonard Woolley fece una scoperta sensazionale, provò concretamente quanto già si pensava da circa mezzo secolo: il Diluvio Universale descritto nell'Antico Testamento era in realtà una più modesta catastrofe che aveva sconvolto la Bassa Mesopotamia, l'attuale Irak meridionale. Sir Woolley aveva ordinato ad un operaio arabo di scavare una fossa per verificare .gli strati archeologici della biblica Ur dei Caldei, la patria di Abramo. L'operaio scavò come gli era stato detto, trovando i consueti strati di vasellame frantumato, mattoni rotti ed altri elementi che indicavano un antico stanziamento umano. Alla profondità di un metro, l'operaio arrivò a quella che gli archeologi definiscono argilla vergine, cioè uno strato da cui si desume che oltre non c'è più nulla di interessante, i segni della vita finiscono lì. L'operaio arabo disse ch'era tempo sprecato continuare nello scavo, ma Léonard Woolley, cocciuto, gli ordinò di continuare. Fortunata cocciutaggine; dopo due metri e mezzo di scavo in profondità, l'operaio ritrovò nuovamente frammenti di cocci ed il consueto materiale archeologico. Sir Woolley rimase perplesso; come si poteva interpretare quella frattura fra due civiltà, quella terra pulita fra due strati che indicavano chiaramente due differenti presenze umane nettamente divise da uno strato di terra sabbiosa e vergine? Chiamò sua moglie, che lo ha sempre seguito durante gli scavi in Irak, e le raccontò il singolare fenomeno. Quasi distrattamente, Katharine Woolley esclamò: « Ma è il diluvio, naturalmente ». Subito diffusa nel mondo, la notizia provocò enorme sensazione, benché in quell'anno, era il 1929, ci fossero argomenti assai più scottanti alla ribalta della cronaca; basta pensare al crollo di Wall Street. Tuttavia, le dichiarazioni di Léonard Woolley s'imposero per i molti problemi d'ordine storico e religioso che originavano. La scoperta era la riprova, già timidamente avanzata nel 1872, che la descrizione biblica del diluvio era la trascrizione di un cataclisma mésopotamico avvenuto almeno mille anni prima dell'Antico Testamento. I primi dubbi sull'autenticità del racconto biblico del diluvio erano sorti nel dicembre del 1872, quando un giovane dilettante di assiriologia tenne a Londra una conferenza dal titolo: « The Caldean account of the Deluge*. Egli affermò che il diluvio era sicuramente una catastrofica inondazione della Mesopotamia: lo aveva dedotto interpretando alcune tavolette d'argilla scritte in caratteri cuneiformi trovate dagli archeologi inglesi durante gli scavi di Ninive, la capitale di Assurbanipal. . II prezioso ritrovamento non aveva molto esaltato gli archeologi, ignari di essere caduti sulla biblioteca di Assurbanipal. Ritenendo le tavolette soltanto «ceramica decorata», le avevano affastellate in alcuni panieri e spedite a Londra. Qui c'era un giovane, Georges Smith, professione disegnatore di banconote, che aveva l'orientalistica nel sangue. Trascorreva tutte le ore libere al British Museum, finché fu notato dal sovrintendente al re parto assiriologia che lo assunse con l'incarico di restaurare le tavolette di Ninive. Georges Smith aveva 21 anni, un'età in cui si pensa a molte cose; egli divorava tavolette assire, riuniva i cocci sparsi, le classificava. Giunse a decifrarle. Quando fu certo di quanto poteva dire, si decise alla conferenza; affermò che circa mille anni prima di Cristo, uno scrittore mésopotamico aveva dato un preciso resoconto del diluvio. Peccato che mancassero alcune tavolette con la fine del racconto. L'emozione per la scoperta fu tale che il Daily Telegraph offri a Smith mille ghinee di allora, riservandosi l'esclusiva del racconto, perché egli andasse a Ninive a cercare le tavolette mancanti. Il giovane Smith ebbe fortuna, dopo otto giorni trovò non esattamente quanto cercava, ma una tavoletta da cui dedusse che il racconto del diluvio di Ninive era la trascrizione di un testo della biblioteca di Babilonia, più antico di quasi un millennio, e questo era sicuramente la derivazione di un racconto sumerico proveniente da Ur dei Caldei, che risaliva almeno a tremila anni prima di Cristo. Mezzo secolo dopo, pala alla mano, Léonard Woolley dava la riconferma di quanto aveva dichiarato Smith. Completato con altre tavolette, il racconto del diluvio mésopotamico divenne quella che gli assiriologi definiscono «l'epopea di Gilgamesh», in cui, punto per punto, viene narrata la vicenda di UtaNapishtim, il Noè mésopotamico. Anch'egli superò il diluvio perché il suo dio, ritenendolo il solo giusto fra gli uomini, gli aveva detto di entrare nell'arca con la moglie, i figli, ed una coppia di ogni essere vivente sulla terra; anch'egli, dopo quaranta giorni di pioggia, mandò fuori corvi e colombe per rendersi conto del livello delle acque, e quando fu certo che la terra era asciutta uscì dall'arca e fece offerte al suo dio, che le gradì e lo rese immortale. La questione che si posero gli studiosi fu: qual è il racconto autentico del diluvio? La risposta era ovvia: il più antico, cioè la trascrizione tro-' vata a Ninive. Che gli ebrei lo abbiano ripreso nell'Antico Testamento non deve meravigliare; essi erano originari della Mesopotamia meridionale, Abramo e gli altri patriarchi provenivano da Ur e da Uruk, la Erech della Bibbia, ed hanno portato con sé il racconto, evidentemente ancora vivo nella memoria degli uomini, del diluvio mésopotamico, ricordandolo anche nei dettagli, come quello dell'arca, argomento quest'ultimo che ha continuato ad alimentare l'immaginazione di molti. Il testo biblico più completo, quello definito « sacerdotale », dice che l'Arca di Noè si arenò sul Monte Ararat; quello mésopotamico che si fermò sui monti settentrionali dell'attuale Irak, cioè ai confini con la Turchia. Anche la località indicata dai due testi per l'approdo dell'arca pressappoco coincide. Ignorando il testo mésopotamico, i ricercatori dell'arca, o dei suoi resti, si sono rivolti quasi esclusivamente al Monte Ararat, un'indicazione geografica precisa. Ogni tanto, qualcuno organizza una spedizione per scalare l'ardua montagna ricoperta da ghiacciai perenni; qualcuno ha affermato di aver veduto l'arca emergere dalle nevi eterne, altri sono ridiscesi con qualche pezzo di legno fradicio giurando che erano frammenti del sacro legno: uno di costoro fu Lord Bryce, valido alpinista inglese, nel 1876. Ancora nel 1952, una spedizione di cineasti partì da Parigi fra gran rumore pubblicitario per andare alla ricerca dell'arca; tutto si spense nel ridicolo, alle prime difficoltà sulle montagne turche. Un giornalista parigino, andato ad intervistare lo storico Massignon, ebbe questa risposta: «Non esiste certo alcuna probabilità di ritrovare l'arca, ammesso che sia mai esistita. Però, non bisogna scoraggiare nessun uomo di buona volontà ». In fondo, gli uomini credono in ciò che desiderano credere, ed è inutile tentar di deluderli affermando che pensar di trovare oggf'ttna barca std Jtoonjp Arajftt, ójsu quello 'ihdiB'atol'daU'epopeà^idi Gilgamesh, è possibile solo con la fantasia. Anche i ghiacci perenni 'non possono aver conservato per più di tremila anni, e per il racconto mésopotamico addirittura cinquemila anni, il legno anche più resistente. Francesco Rosso I luoghi che videro l'Arca Ur dei Caldei: un beduino tra I resti della città di Abramo (Foto F. Rosso)