Acsesa e declino di Ike Eisenhower di Alberto Ronchey

Acsesa e declino di Ike Eisenhower Acsesa e declino di Ike Eisenhower Truman fu il vigore populistico, Kennedy l'impeto e lo stile intellettuale, Johnson il presidente più controverso del dopoguerra. E Dwight Eisenhower? Egli fu l'immagine patriarcale e suadente, alla quale gli americani si volsero in una di quelle epoche in cui ogni dato sicuro sembra dissolversi, ponendo problemi che chiedono tempo e raccoglimento. Fra i presidenti del dopoguerra, Eisenhower fu il solo venerato quasi in obbedienza a un generale complesso di « soggezione al padre ». E solo la psicologia dell'inconscio applicata alle moltitudini può spiegare la «magìa di Ike », grande mediatore, pacificatore e rasserenatore, ancorché non dotato d'un senso profondo della «direzione storica », né di tecnica e passione del potere. «Eisenhower — scrisse Theodorè White in "The making of the President" — sa rendere felice la gente. Gli americani, appena vedono Eisenhower, si sentono felici». Non era stato uno'stratega di spiccata personalità, come Mac Arthur, Montgomery, Bradley o Patton, né uomo d'intuito come Marshall. Era stato, anche al comando della grande armata che aveva riconquistato l'Europa, un mediatore e rassicuratore. La sua biografia non indicava molto di più che un pacato militare nato nell'Ottocento (1890 a Denison, Texas, da una famiglia del Kansas) e un regolare prodotto di West Point. Non era stato un condottiero della tempra di Mac Arthur; eppure, durante la tempestosa crisi dei missili cubani, nell'ottobre del '62, chiunque assistesse in America alle prime rappresentazioni del film sullo sbarco in Normandia, The longest day, avrebbe potuto comprendere il grande fascino di Eisenhower. Alle prime note dell'inno « D. Day » la folla si levava in piedi e applaudiva, come se lo sbarco della « /j/h grande coalizione di eserciti di tutti i tempi*, al comando di Eisenhower, fosse avvenuto qualche mese prima. In realtà quella guerra era stata ed è tuttora per gli americani il primo d'una lunga serie di traumi, che hanno imposto agli Stati Uniti l'assunzione di responsabilità più repentina e forse più pesante nella storia moderna: quella guerra, abolì le distanze, l'Oceano, la dottrina di Monroe. E Dwight Eisenhower simboleggiava il solo vantaggio che l'emisfero americano aveva tratto da una simile avven-. tura: l'Adantico ridotto alla dimensione d'un lago, come il Michigan, e l'esperienza che molte nazioni potevano costituire un solo esercito. Quando gli elettori americani scelsero per la prima volta Eisenhower come Presidente, nel 1952, si trovavano sommersi dai problemi, all'apice della « guerra fredda »: maccartismo, pacifismo, guerra di Corea, spionaggio atomico. Fra un intellettuale troppo intelligente e difficile, quale era Stevenson, e l'autore di « Crusade in Europe», che Churchill aveva elogiato in un messaggio a Truman come unificatore di eserciti, scelsero Eisenhower. Certo, Le Monde e il Manchester Guardian gli preferivano Stevenson, ma il vecchio soldato poteva nello stesso tempo esorcizzare la tragedia coreana e mostrarsi, qual era, un uomo pacifico e saggio, immagine della pazienza. Inoltre, in America, era al di sopra dei partiti, godeva d'una dignità quasi sacerdotale, parlava in modo piano, fedele al senso comune. Questo fu il significato dei plebisciti del '52 e del '56: « 7 Ukf l\e ». Il fenomeno durò fino al 1960, quando al Co liseum di New York, dinanzi ad Eisenhower ancora Presidente comparvero le prime scritte: « We lil^e l\e, but we bacl^ Jack * (Ci piace Ike, ma sosteniamo Jack Kennedy). Quella di Eisenhower fu l'età di transizione fra la guerra fredda e la coesistenza. Fu l'epoca del «riposo del guerriero », mentre l'America affidava a un generale il compito di manifestare un misurato vigore, tirando un poco il fiato e maturando la fase del gran balzo degli aani '60, con l'incubazione del favoloso boom economico e tecnologico di questi tempi. Ogni società, ad un certo punto, ha bisogno di riposo, di ordinaria amministrazione, e persino di conservazione in termini abbastanza schietti da consentire una critica efficace della conservazione. In quegli anni, l'America sembrò quasi adagiarsi fra i comforts: autostrade, nuovo capitale sociale fisso a sostegno della placida vita suburbana, molto business e poco governo. Furono esaltati vantaggi e squilibri della «società opulenta»: fu l'epoca delle automobili dalle code a pinne monumentali, simboli del superfluo. Ma lo sviluppo emerge sempre dallo squilibrio; e proprio in tali condizioni dovevano nascere le correnti di idee che confluirono nella critica kennedianagalbraithiana. Molto tempo dopo l'armistizio coreano, la sola iniziativa dinamica di Eisenhower fu il dialogo con Kruscev, l'invito a compiere una visita « da costa a costa » nel paese-antitesi del mondo sovietico. Forse Eisenhower pensò di tentare semplicemente un gesto da' uomo saggio: ma provocò una rivoluzione. Da un lato Kruscev misurò la forza potenziale dell'America (ma non ne ricavò tutte le conseguenze, poiché non mitigò il suo linguaggio). D'altra parte il paese ne fu scosso. Kruscev derise i bassi ritmi di sviluppo dell'economia americana, suscitando un dinamismo per motivi « ideologici » oltre che economici. Gli ultimi mesi della presidenza Eisenhower furono tragici, si può dire che imposero la svolta kennediana. Washington si trovava ad essere ogni giorno sopravanzata e sorpresa dai fatti. Nella primavera del '60, a Washington non capirono che Kruscev cercava un pretesto per sospendere il « dialogo» a causa dell'opposizione cinese. Offrirono questo pretèsto con le ricognizioni dell'U-2, Quando l'aereo di Powers venne abbattuto, il Dipartimento di Stato negò e poi si smentì. In seguito Eisenhower andò a Parigi solo per assistere al rifiuto del «vertice» da parte di Kruscev. Nello stesso tempo cadde il governo turco (e Washington ne fu sorpresa), venne rovesciato Sigman Ree in Corea (e Washington ancora ne fu sorpresa), i moti giapponesi costrinsero Eisenhower a cancellare la sua visita a Tokio, lo stesso Fidel Castro giudicò proprio allora che l'America fosse abbastanza maldestra e debole da subire la sua ostilità « senza vezzeggiarlo o spegnerlo», e infine l'economia americana subì una recessione. Kruscev, che pochi mesi prima aveva indicato Eisen¬ hower come «l'uomo della pace », proprio allora divenne ingiurioso. Forse deluso perché un Presidente così debole non cedeva almeno su Berlino, un giorno alla sala Sverdlov del Cremlino descrisse Eisenhower con queste parole: « Quando perderà l'incarico, potrà fare il direttore d'un asilo d'infanzia. Non è capace di fare del male a un bambino, ma è pericoloso che un uomo così diriga uno Stato, perché può tagliare tanta legna che nessuno ci capisce più niente. Lo conosco, l'ho osservato spesso, fin dalla conferenza di Ginevra del '55. Quando doveva .parlare, Foster Dulles gli scriveva bigliettini. Nemmeno tentava di salvare le apparenze. E adesso, morto Foster Dulles, è rimasto Alien Dulles. Ma il pro¬ blema non è nei Dulles: se c'è un vuoto, naturalmente qualcuno lo riempie... ». Simili parole giungevano come fucilate in America. E così Eisenhower, che da stratega dello sbarco in Normandia aveva rappresentato l'America trionfante, concluse il suo mandato. Quel 1960 fu l'anno in cui l'America apparve più debole, anche se non era debole. E fu questo che suscitò un contraccolpo vitale. Il Presidente degli Anni Cinquanta, che era già stato il proconsole degli Anni Quaranta, restò nei ricordi il simbolo d'una lunga e placida illusione, opposta à quell'ansia di sicurezza contro i grandi timori che da tempo ha assorbito nella politica i fenomeni dell'inconscio di massa. Alberto Ronchey Eisenhower nel marzo del '44 prima dello sbarco In Normandia. A fianco, Il capo dell'aviazione Inglese, Tedder