«La monaca di Monza» e un ambiguo «sergente »

«La monaca di Monza» e un ambiguo «sergente » LE «PRIME» SULLO SCHERMO «La monaca di Monza» e un ambiguo «sergente » La storia di Virginia De Leyva nel film di Eriprando Visconti Rod Steiger interprete d'una scabrosa vicenda d'ambiente militare « Cerimonia segreta » di Losey con Elizabeth Taylor e Mia Farrow (Cristallo) — Figlia corrotta di tempi corrotti, Marianna de Leyva, è senza dubbio un personaggio di rilievo della sua epoca (il '600) ed è naturale che lo spregiudicato cinema odierno sì sia ricordato nuovamente di lei per evocarne la tragica e tetra storia. La De Leyva, diventata suor Virginia dopc la monacazione forzata, è il personaggio di centro dell'eastmancolor La Monaca di Monza, diretto da Eriprando Visconti, nipote di Luchino, fattosi notare anni fa per un'opera prima raffinata: Una storia milanese. Stavolta la raffinatezza è circoscritta alla cornice, davvero pregevole per l'apporto intelligente delle scenografie di Flavio Mogherini, i costumi di Danilo Donati, il colore del direttore della fotografia Luigi Kuveiller. L'alto decoro formale della produzione contribuisce a renderne meno sgradevole la sostanza, che è quella d'una storia, purtroppo vera, contesta di sacrilegi e di atrocità. La « monaca di Monza », mostrata non come la manzoniana Gertrude, ma nella vera identità di suor Virginia, ha nel dopoguerra due antecedenti cinematografici entrambi identici, nei titoli, al film odierno: La Monaca di Monza di Raffaello Pacini con Paola Barbara e Rossano Brazzi (1947) e La Monaca di Monza di Carmine Gallone con Giovanna Ralli e Gabriele Ferzetti (1962). Altri tempi: tempi in cui la censura imponeva di rovesciare la realtà storica e sconsigliava di mostrare religiosi intrigati in nefandezze o responsabili di delitti. Oggi è diverso: e tanto Visconti quanto il suo sceneggiatore Giampiero Bona hanno potuto servirsi degli atti del processo contro la « Monaca », così da essere in grado-di raffigurare suor Virginia in tutta la sua fosca realtà. Ne è derivato un film a sue, volta fosco, dove la protagonista, indotta al peccato dal nobile Gian Paolo Osio, travolta dalla passione per lui, fattasi sua ignobile complice nelle continue iniquità dentro e fuori del chiostro, diventa un personaggio femminile tra i più «neri» del cinema di questi anni, ohe pure, in fatto di « «rcine » corrotte, non scherza davvero. La regia non manca in più punti di dare alla vicenda risvolti plateali, sia che conceda impudicamente metraggio a scene erotiche, sia che si- attardi in particolari di violenza e di tortura. E in qualche punto si arriva alle soglie del fumetto, sia pure di lusso. Tra gli interpreti spicca la macerata protagonista, Anne Heywood. Parimenti intensa Carla Gravina, nel ruolo di una conversa compromettente che sarà trucidata. Come Osio, Antonio Sabato manca del tutto della innata protervia del personaggio. Tino Carraro è un cardinale Borromeo incisivo, Hardy Kruger un monaco confessore improbabile. (Ambrosio) — Rod Steiger, eccellente attore anche quando della propria bravura si compiace, dà corposo rilievo al protagonista del technicolor II sergente («The Sergeant»), diretto con qualche ambizione da John Flynn per una produzione sorvegliata da Robert Wìse. Derivato da un racconto di Dennis Murphy (anche sceneggiatore), il film si svolge nel 1952 e ambienta con cura, in un campo militare americano situato in Francia, la vicenda di un sergente di carriera duro, inflessibile, però capace di affezionarsi a un subordinato e stabilire con lui un rapporto quasi paterno. Riservato, fine, schivo, il soldato accetta l'amicizia dell'anziano sottufficiale. Ad essa subentra, nel sergente, una torbida gelosia quando una bella figliola entra un po' troppo nella vita del giovane. In breve s'arriva al dramma. Il sergente è sconvolto dall'ambiguo sentimento che lo porta verso il ragazzo. Lui, il soldato, non sa che quella morbosa inclinazione è la conseguenza di un trauma subito in guerra dal sergente dodici anni prima. Una malattia, dunque, più che un vizio: lo sventurato, non potendo più sopportarla, si spara. Il film, mostrando tatto e misura, tratta con sobrietà la scabrosa materia, riuscendo a suscitare una sincera pietà per il sergente. In questo lo spettatore è aiutato dalla duttile efficacia del protagonista. John Phillip Law è il soldato, al quale fa da gentile innamorata un'inedita attrice francese oriunda russa, Ludmilla Mikael, che viene dal teatro ed è piutto sto carina e brava. (Astor) — La presenza di Elizabeth Taylor in Cerimonia segreta di Joseph Losey è l'unico indizio dì continuità nell'opera del regista anglo-americano, che già aveva diretto l'attrice come protagonista ne La scogliera dei desideri. Losey sembra improvvisamente invecchiato e il suo stile si è appesantito dietro le improbabili vicende di due donne che vivono come in un incubo. Qui la Taylor è avvicinata da una. ragazza (Mìa Farrow) che crede dì ravvisare in lei la madre scomparsa. Così dolce ed affettuosa, trascina nella finzione la sconosciuta, che del resto ha perso in circostanze drammatiche una figlioletta che potrebbe avere all'incirca la stessa età. Uno strano legame, forse più che fa¬ miliare, le avvicina per gualche tempo. Poi ricompare il patrigno della ragazza, la quale si rivela per una pericolosa ninfomane e simulatrice. Rottura fra le due donne e finale elegiaco, in tono minore. Ma a questo punto ecco la sorpresa tratta da una novella spagnola che Losey poteva tralasciare con sicuro profitto. Un suicidio e un omicidio tingono di sangue la dolorosa storia. Madre nobile senza troppa vocazione, Liz Taylor cerca di contenere le smancerie di una Farrow stavolta vivace e capellona. Robert Mitchum sembra sfuggire alla distratta regìa di Losey. vice

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