Il matrimonio dei preti

Il matrimonio dei preti La disputa sul celibato ecclesiastico Il matrimonio dei preti L'aspirazione all'abbandono del celibato ecclesiastico s'inserisce nel movimento verso un cristianesimo su dimensioni esclusivamente umane, ove sia stato accantonato ogni riferimento al sovrannaturale; servizio, sacrificio, ma in una direzione ben visibile, a profitto degli uomini. In una tale concezione non ha più senso parlare di purezza del ministro che offre il sacrificio sull'altare, di rinunce effettuate per accrescere un tesoro della Chiesa, per attirare su di sé la grazia di Dio. Il sacerdote non è più che un maestro, come in altre religioni; e soprattutto un animatore, un dirigente, uno che coordina gli sforzi sociali di una comunità. Non sto qui a ripetere quanto tanto bene è stato scritto da Piovene, da Firpo, da Abbagnano: che in una tale concezione non si dà più ragione di mantenere un particolare settore che si denomini cristiano in seno all'ampia cerchia dei buoni, degli animati da amore per i fratelli, da desiderio di sollevare i poveri ed i caduti, da un anelito di giustizia sociale. 11 cristianesimo, come ogni religione che si fondi sul sacro, è superato; siamo alla visione ottimistica, già propria ad illuministi, a socialisti delle prime generazioni, di quella che sarebbe stata l'umanità dopo che la scienza avrebbe ucciso l'idea di Dio; contrapposta alla visione pessimistica della belva umana che si sarebbe allora scatenata. Pieno rispetto per chi, non credendo più nel soprannaturale, è però filantropo, disposto a combattere per il bene dei suoi fratelli; ma non vedo perché voglia continuare a chiamarsi cristiano; se prete, non avverta il distacco insormontabile con le generazioni di sacerdoti che lo hanno preceduto, con i suoi confratelli che ancora credono nel Dio personale invisibile, che si occupa di ogni uomo, che spande la sua grazia, che può operare miracoli. Certo, il problema del celibato non può venire considerato con leggerezza. Ricordo un sacerdote, di una decina d'anni più vecchio di me; era passato attraverso le lotte del modernismo ed aveva anche avuto una sua crisi personale, ed era poi rimasto nella Chiesa e aveva condotto vita sacerdotale irreprensibile; per lui il celibato grondava di lacrime e di sangue. Molto più di recente un prete ancor giovane mi diceva che, contro quel che comunemente si crede, non è l'assillo della carne quel che più pesa sul sacerdote, ma il senso della solitudine, la mancanza di un affetto femminile, fosse pure il più sororale. Il sacrificio fisico e morale è fuori discussione. Ma è un sacrificio superfluo, anche a parlare in termini umani, astraendo da ogni idea di sacro? Penso a volte al romanzo russo; il pope sposato, povero, talora carico di figli, appare molto spesso umiliato, prono ai ricchi, servile; le figure austere, che destano venerazione, sono di monaci, votati al celibato, lo starets Zossima dei Fratelli Karamazov, l'uomo che vive per gli altri, per comprendere le sofferenze dei fratelli, per illuminarli e guidarli. C'è la visione delle Chiese protestanti; e sicuramente non occorre il celibato per condurre una vita retta, pulita, essere maestro di moralità, impartire buoni consigli. Se non si domanda al sacerdote più di quel che si domanda ad un buon insegnante, ad un buon ufficiale, il celibato non è necessario. Se gli si chiede di più, di essere sempre disposto al sacrificio totale, di essere inaccessibile alle intimidazioni, ai piccoli compromessi, temo invece che lo sia. Sempre a lasciare da parte ogni idea di sacro, ed a parlare il linguaggio di una umanità dissacrata, direi che anche per questa valga la regola che la famiglia è, sì, una forza dell'uomo, ma una forza per una vita comune, non eroica. Ed è una forza per l'uomo che deve guardare al proprio bene, a non accasciarsi, a non arrendersi, a lottare soprattut¬ to sul terreno economico. Ancora una forza, in quanto aiuta a comprendere, a compatire, fino a che la vita è relativamente facile, non priva di qualche agio, senza l'angoscia di non poter soddisfare i bisogni immediati. Ma diviene un freno, una inibizione, se si debbono toccare le vette del sacrificio; quando si lotta per sopravvivere, porta a passare sul corpo degli altri chi, solo, avrebbe preferito perire piuttosto che veder perire i vicini. Per questo non mi dicono gran che gli esempi delle Chiese protestanti consolidate, con comunità sufficientemente agiate, che assicurano un qualche benessere ai loro pastori. Dovunque ci sono uomini impegnati in lotte, si tratti di rivoluzioni, di congiure, o della battaglia giorno per giorno per salvare quella gran parte della umanità che non si riesce a tirar fuori dalla melma (penso alle sante donne del Centro tutela minorile di cui questo foglio parlava or è qualche giorno), scorgo sempre da un lato i pochi che sacrificano i più cari affetti — nel Risorgimento italiano Anita Garibaldi, la compagna di Carlo Pisacane, la figlia di Daniele Manin —, non lasciandosi arrestare dalla miseria, dagli stenti di questi esseri cari, dai pericoli cui li espongono, di quella che sarà la loro sorte ov'essi, il marito, il padre, vengano a mancare; dall'altro lato, i molti che la famiglia porta a piccole transazioni, ad adattamenti, a rinunce. I figli sono la più grande tentazione, su questo terreno; l'uomo che vuole darsi tutto, senza restrizioni, alla sua causa, deve anche saper accettare il sacrificio dei figli, non indietreggiare al pensiero delle vendette che potranno essere esercitate su di loro, più semplicemente delle vie che si sbarreranno ad essi in odio al genitore. Per questo pavento il prete coniugato (anche a lasciar da parte la resistenza che troverebbe nella nostra società, i pettegolezzi che si addenserebbero intorno alla canonica allorché vi fosse una moglie) e preferirei innovazioni che forse trovano ostacoli teologici, come l'ordinazione di donne, all'abbandono del celibato, che non ne incontra nel diritto divino. Sempre che il cattolicesimo debba permanere, e non debba ridursi ad una cerchia avente solo una giustificazione storica, entro la schiera dei filantropi, mi sembra più palese che mai che il prete non può essere un uomo come gli altri, un semplice uomo buono, morale, caritatevole. Plaudo naturalmente al più mite costume Jleila" 'Chtesa contemporanea, di dispensare il sacerdote che più non accetta il celibato. E quando sento a questo proposito parlare poi di scarsità del clero e del timore che per via del celibato divenga sempre più insufficiente, non posso non pensare a quanti preti vedo ancora, specie nelle grandi città, specie a Roma, adibiti a compiti diversi da quello del pastore d'anime, il solo per cui veramente scorgo la necessità del celibato: in uffici amministrativi ecclesiastici (nelle stesse congregazioni romane, fuori dei posti direttivi, quanti laici potrebbero esservi adibiti, come seguiva fino a circa un secolo fa), nell'insegnamento (niente di assurdo in un professore di latino o di fisica laico pur in un seminario), in compiti strettamente amministrativi. Ho visto con gioia sorgere un giovane clero studioso, comprensivo, intelligente, aperto, coraggioso anche; ho l'impressione sia migliore, certamente più atto ad un'attivi¬ tà missionaria, delle generazioni che lo hanno preceduto; più capace di seminare e raccogliere in ampie distese di terreno. Non si lasci corrompere dalla tentazione di modernizzarsi, di mimetizzarsi, anche quando non. ce ne bisogno (invece ammiro i preti operai, purché siano . uomini davvero ferrati). Ho sempre il ricordo di un vecchio cugino prete, che quando nei giorni di solleone i ragazzi scherzavano sulla sua tonaca nera, « Fa sudare, eh? », rispondeva passando dal.concreto al traslato: « Non sapete quanto pesa; ma quanto protegge! », A. C. Jemolo

Persone citate: A. C. Jemolo, Abbagnano, Anita Garibaldi, Daniele Manin, Firpo, Piovene, Pisacane

Luoghi citati: Roma