"La colpa è tutta dei geologi,, dice Il principale imputato per il Vajont di Guido Guidi

"La colpa è tutta dei geologi,, dice Il principale imputato per il Vajont Il processo ai tribunale dell'Aquila per la sciagura del 9 ottobre 1963 "La colpa è tutta dei geologi,, dice Il principale imputato per il Vajont L'ini?. Nino Biadane ha diretto l'ufficio della Sade che realizzò la diga - Deve difendersi dall'accusa di avere provocato, per errore, la frana del monte Toc, causa della strage - «I costruttori non hanno colpa — ha detto l'ing. Biadene ai giudici —; noi abbiamo sentito il parere dei geologi, i quali hanno assicurato che il terreno non era pericoloso» - Ma il presidente osserva che uno studioso, il prof. Muller, avvertì che dalla montagna sarebbe caduta una frana spaventosa (Dal nostro Inviato speciale) - L'Aquila, 10 febbraio. La colpa, dunque, sarebbe tutta dei geologi se, una decina d'anni or sono, a qualcuno venne l'idea di realizzare la costruzione, nella zona del Vajont, di quella che doveva essere, e che è tuttora per quanto non utilizzata, « la diga più alta d'Europa ». I geologi dissero che non esisteva alcun pericolo e gli ingegneri si misero all'opera con animo tranquillo. Questa è la tesi dell'ing. Nino Biadene che, scomparso nell'ottobre 1961 l'ing. Carlo Semenza ideatore e in parte realizzatore dell'opera, rimane per l'accusa uno dei maggiori responsabili, se non addirittura il maggiore, di quanto è avvenuto poi la notte del 9 ottobre 1963 nella zona di Longarone, dove, nel giro di pochi minuti, morirono circa duemila sventurati travolti dall'acqua e dal fango. Sarebbe stato sufficiente che i geologi — ha fatto chiaramente intendere oggi l'ing. Biadene ai giudici del Tribunale che hanno incominciato a interrogarlo — avessero espresso un'opinione diversa e la diga non sarebbe stata costruita in una zona così pericolosa, come si è potuto accertare in un secondo momento. Ma i geologi — prof. Giorgio Del Pìaz, ordinario all'Università di Padova, e prof. Francesco Penta, già componente del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici — sono morti da tempo. Dopo quasi tre mesi dall'inizio ufficiale, oggi il processo vero è cominciato. Ed è stato il turno del primo degli otto imputati: Nino Biadene, senz'altro il più importante. Cinque ore d'interrogatorio. Alberico, detto Nino, Biadene ha 68 anni, è nato ad Asolo nel novembre 1900, vive a Venezia, è stato uno dei maggiori collaboratori dell'ing. Carlo Semenza nella costruzione di otto dighe in Italia ed all'estero; ha diretto l'ufficio della Sade, che ha realizzato la diga sul Vajont, prima di assumere l'incarico di vice-direttore generale dell'Enel-Venezia. Deve difendersi da una triplice accusa resa più consistente dall'aggravante di « avere previsto » quanto poi è avvenuto: 1) avere provocato per errore la frana del monte Toc; 2) avere determinato l'inondazione perché la frana sollevò una massa d'acqua di 50 milioni di metri cubi; 3) avere causato, in conseguenza, la morte di 1901 sventurati. Il giudice istruttore, dottor Fabbri, avrebbe voluto arrestarlo, firmò un mandato di cattura contro di lui (ed un altro contro un suo collaboratore, l'ing^ Dino TonirjU, mà l'mg/mno 'Biadene, Intuito il pericolo, si allontanò da Venezia nel febbraio dello scorso anno per tornarvi soltanto tre mesi dopo, quando la Cassazione aveva revocato il provvedimento. La prima preoccupazione dell'ing. Biadene è stata quella di convincere i giudici che ai costruttori non dovrebbe essere attribuita nessuna responsabilità. L'accusa rimprovera a lui e alla società Sade di avere dedicato una piccolissima parte del bilancio stabilito per realizzare la diga sul Vajont a studi geologici del terreno, con la conseguenza di non aver mai saputo che l'opera sarebbe stata costruita su una zona infida. Si tratta di una critica senza fondamento — è stata la spiegazione data oggi dall'ing. Biadene — poiché la società si rivolse al prof. Giorgio Del Piaz, che in quell'epoca rappresentava una delle maggiori autorità nel settore geologico. Ed il prof. Del Piaz fu molto esplicito: parlò di « eventuali lenti movimenti » e di « successivi scoscendimenti del terreno », ma li qualificò sempre di « non grande entità ». « Tale suo convincimento — ha aggiunto l'ing. Biadene — egli riuscì a trasferire in noi, non geologi, con la conseguenza che la sua sicurezza diventò la nostra». Ma l'ing. Carlo Semenza, evidentemente, non era così sicuro, se sentì il bisogno di chiedere un parere anche ad un geologo austriaco, il prof. Muller, oltre che al proprio figlio, il dott. Edoardo Semenza e al dott. Franco Giudici. Le conclusioni di costoro non furono confortanti. Ma il prof. Del Piaz, informato, tornò a ripetere che si trattava di preoccupazioni eccessive. La diga, nel frattempo, era stata costruita, ma l'ing. Carlo Semenza continuava a non essere tranquillo: le ipotesi di suo figlio soprattutto non erano affatto ottimistiche. Furono compiute altre indagini, ma un'altra autorità nel settore geologico, il prof. Pietro Caloi, affermò che il terreno era sufficientemente elastico e la elasticità in questi casi è sinonimo di sicurezza. La mattina del 4 novembre 1960, però, avvenne un episodio che, secondo l'accusa, avrebbe dovuto mettere in allarme i costruttori, nonostante l'ottimismo dei geologi: una parte del monte Toc franò nel bacino artificiale costituito dalla diga. Si trattò di un movimento limitato a 700 mila metri cubi di terreno, che non provocò altre conseguenze che l'intasamento del bacino: l'acqua spostata dalla massa di terra non superò le sponde della diga. Quello, comunque, sarebbe dovuto essere un segnale ammonitore: ma — ha spiegato oggi l'ing. Biadene — tutti i « medici », convocati per studiare il fenomeno, ad eccezione del prof. Muller, anche questa volta non furono pessimisti. « Scusi — lo ha interrotto il presidente — ma non è stato in questa occasione che il prof. Muller fece una previsione apocalittica, sostenendo che la frana successiva sarebbe stata di 200 milioni di metri cubi, come purtroppo avvenne tre anni dopo? ». « No, no — ha replicato subito l'ing. Biadene — non in questa occasione ». « Qualcuno vi aveva mai avvertito che alzando o abbassando il livello dell'acqua del bacino artificiale — ha voluto sapere il presidente — avreste finito per turbare l'equilibrio dei luoghi, con la conseguenza che le pareti del monte Toc avrebbero finito per cedere?». « Noi decidemmo di abbassare il livello dell'acqua — ha spiegato l'ing. Biadene — proprio nel tentativo di migliorare la situazione»: Ma accadde esattamente il contrario: la parete, non più sorretta dall'acqua, si indebolì, tornò a rinforzarsi quando, passato il timore iniziale, il bacino fu riempito nuovamente per essere poi, in un secondo momento, svuotato, e questo quasi alla vigilia della frana che ha provocato la sciagura. Ma questo è un altro argomento che l'ing. Nino Biadene affronterà domani: il suo discorso, dopo circa quattro ore, oggi, è appena all'inizio. Guido Guidi L'imputato ing. Nino Biadene, costruttore della diga, interrogato ieri al processo del Vajont (Telefoto Ansa)