Israele e le forche di Bagdad di Nicola Adelfi

Israele e le forche di Bagdad SI SONO AGGRAVATI I PERICOLI NEL MEDIO ORIENTE Israele e le forche di Bagdad La reazione nel paese è di dolore, collera, desiderio di vendetta - Il governo ha scartalo per ora la rappresaglia, ma potrebbe assistere inerte ad un nuovo eccidio? - Il processo contro gli ebrei iracheni è giudicato un sintomo allarmante: il regime di Bagdad tende a gareggiare in oltranzismo con la Siria ed a scavalcare Nasser, mentre le sue truppe già controllano il re di Giordania - Tutto appare oggi possibile nel mondo arabo, meno la pace (Dal nostro inviato speciale) Tel Aviv. 30 gennaio. Quasi tutti ì giornali israeliani pubblicano fotografie panoramiche o particolareggiate dei nove ebrei impiccati a Bagdad, nella piazza della Liberazione gremita di folla tripudiaste A Tel Aviv come a Gerus mine, a Haifa, nei piccoli idbbut zim agricoli, spira un'aria difficilmente definibile: non si capisce se il sentimento prevalente sia la collera, oppure il dolore, o invece l'impulso a vendicare gli impiccati. Tutti qui sono amaramente persuasi che l'attuale dittatore dell'Irak ha voluto l'esecuzione dei nove ebrei unicamente perché essi erano ebrei. Vi spiegano che nell'Irak la popolazione ebraica è formata da circa tremila persone che vivono in condizioni del tutto miserabili; sono relegati nei ghetti, sottoposti a spìetate restrizioni e ad una continua sorveglianza: perciò non hanno la benché minima possibilità di raccogliere notizie di carattere militare e di farle pervenire a Israele. Inoltre, nonostante che il processo si sia svolto a porte chiuse e davanti ad un tribunale formato da tre ufficiali, nei resoconti diffusi dalla Radio di Bagdad numerose contraddizioni sono via via emerse. Per esempio, alcuni imputati avrebbero ammesso di essersi serviti di una radio a onde corte per trasmettere segreti militari al consolato americano di Abadan; tuttavia ad Abadan non c'è e non c'è stato mai un consolato degli Stati Uniti. Sempre in base alle notizie diffuse dalle radio irachene è emerso che gli imputati sapevano, ancor prima della sentenza, quale sarebbe stata la loro sorte. Uno di essi, avendogli il presidente del tribunale chiesto se voleva un avvocato, rispose: « A che servirebbe? ». Sebbene il clima sia molto teso, in nessuna città israeliana si sono avute manifestazioni di piazza disordinate o violente. La gente stringe i denti: mi dicono che uguale era l'atmosfera alla vigilia della « guerra dei sei giorni ». Particolarmente diffuso è il risentimento contro coloro che ebbero calde parole di solidarietà verso i libanesi nei giorni successivi all'incursione degli elicotteri israeliani contro l'aeroporto di Beirut, ed ora tacciono. Particolarmente aspri sono i commenti che riguardano il generale De Gaulle, accusato di fornire armi agli iracheni nella speranza di ricevere in cambio un po' di petrolio. A parte la commozione, ora una domanda assilla tutti quanti, nello Stato d'Israele, nei vicini Paesi arabi, verosimilmente anche a Washington ed a Mosca: come reagiranno gli israeliani? Qui è unanime la convinzione che gli iracheni saranno puniti con molta severità. Anche El Bakr, il dittatore iracheno, ne è persuaso: a Bagdad ha fatto proclamare lo stato d'allarme aereo, reparti in assetto di guerra sono stati messi intorno agli edifici considerati dì interesse strategico, e spostamenti di notevoli unità militari avverrebbero verso le zone della Giordania settentrionale, dov'è di stanza una brigata irachena. « Ci sono molte maniere per spellare un coniglio »: il proverbio è inglese, ma oggi mi viene ripetuto da diversi israeliani. Vogliono così farmi capire che, pur avendo Dayan escluso attualmente una rappresaglia, in qualche modo l'Irak dovrà « pagare » per gli ebrei impiccati e per gli isterismi di esultanza della sua Radio. Così la situazione si inacerbisce sempre più di giorno in giorno, e la scalata verso una nuova guerra rischia di diventare sempre più rapida, sempre più verticale. Oggi nello Stato d'Israele è giornata di lutto nazionale. La popolazione è invitata a raccogliersi nelle si7iagoghe, a digiunare, a pregare affinché non avvengano altri eccidi di ebrei nei Paesi arabi. A parte le fotografie, che esprimono di per se stesse un significato tragico ed esplicito, in genere il tono della stampa israeliana rispecchia, l'atteggiamento dei cittadini: un'indignazione a denti stretti, un controllo attento di ciascun concetto, di ciascuna parola. Per esempio, il giornale comunista Kol Haam scrive che il popolo iracheno saprà trovare da solo la via giusta per fare giustizia di un tiranno e di un regime, che tentano di salvarsi uccidendo ebrei innocenti. Non è questo il solo giornale israeliano a pensare che Al Bakr ha fatto quel che ha fatto soprattutto per fronteggiare la crescente opposizione interna. Egli sa che gli ebrei sono odiati, e facendone impiccare nove ha calcolato di poter acquistare titoli di particolare benemerenza presso il suo popolo. Secondo altre fonti, invece, tra i Paesi arabi c'è oggi una corsa sfrenata a chi si dimostra più attivamente ostile nei riguardi di Israele, e ciò in seguito alla nascita ed alla crescita vigorosa dei movimenti che hanno per protagonisti i fedain e che si propongono la guerriglia popolare. In questa tendenza generale tra i Paesi arabi a scavalcarsi con le parole e con i fatti nella lotta contro Israele l'Irak occupa un posto a sé. Da venti mesi tiene dislocate nella Giordania settentrionale consistenti forze militari, dicendo che lo fa al solo scopo di difendere i territori giordani dall'imperialismo israeliano. Però, quasi certamente, si tratta di un pretesto: si è più vicini alla realtà supponendo che l'Irak sente approssimarsi la fine del regno di Hussein e vuole trovarsi sul posto per raccoglierne le spoglie. Tuttavia la stessa intenzione viene attribuita anche alla Siria. Ora, nel caso che il re Hussein venga detronizzato dai fedain, due sono le ipotesi più probabili. La prima è che la Siria e l'Irak si mettano d'accordo nello spartirsi pacificamente la Giordania; la seconda è che non raggiungano un accordo e si azzuffino tra loro. Perciò in questo momento, allo scopo di acquistarsi le simpatie dei fedain palestinesi, l'Irak perseguita ed impicca quanti più ebrei gli è possibile, senza preoccuparsi che la coscienza morale del mondo lo consideri un Paese barbaro medioevale. E' un quadro seriamente preoccupante. Da una parte riflette l'accresciuta tensione nel Medio Oriente; dall'altra il declino di Nasser. La verità è che a Nasser non restano in mano che poche carte, e tutte di scarsa importanza. L'evolversi di nuove situazioni non fa che aumentare le sue difficoltà, che erano già molto gravi; oggi egli annaspa malamente tra gli ultimi nella corsa dei Paesi arabi contro Israele. Nel caso dei nove ebrei impiccati a Bagdad, la stampa e la Radio egiziane hanno diffuso bensì le notizie, però dandogli uno scarso rilievo. E' sempre così, lo è perché Nasser non può fare la guerra e non può fare la pace. Per salvare la faccia e probabilmente qualche cosa di più, egli vorrebbe trovare una soluzione politica di compromesso, ma gli altri non stanno al suo gioco. Così da una parte Nasser dice di essere disposto a discutere il piano sovietico per il Medio Oriente; dall'altra promette cannoni e missili ai fedain della Giordania, manda i suoi istruttori nei loro campi di addestramento. In una situazione così fluida, dove le rivalità nel campo degli alleati arabi sono così numerose e mutevoli, il governo israeliano viene a trovarsi a sua volta in una condizione difficile. Ha vinto la guerra; però nel campo avverso non esiste un interlocutore valido con cui trattare la pace. Per gli israeliani quel miraggio della pace, che inseguono da oltre vent'anni, divenià un traguardo sempre più lontano, sempre più vago, e anche sempre più oneroso. Nicola Adelfi

Persone citate: Bakr, Dayan, De Gaulle, Nasser