«Il dio Kurt», aguzzino nazista nel dramma di Alberto Moravia

«Il dio Kurt», aguzzino nazista nel dramma di Alberto Moravia La «prima» assoluta al Teatro Stabile dell'Aquila «Il dio Kurt», aguzzino nazista nel dramma di Alberto Moravia L'opera, clamorosamente bocciata al premio Pirandello, raggiunge sulla scena una efficacia che mancava alla lettura - Un ufficiale hitleriano costringe alcuni deportati ebrei ad allestire «Edipo re» di Sofocle, vivendo materialmente i truci episodi che dovrebbero recitare (Dal nostro inviato speciale) L'Aquila, 28 gennaio. Del Dio Kurt si parla, e si discute, da due anni. Bocciata al Premio Pirandello '67, contesa (ma senza molto accanimento) fra illustri regi sti come Strehler e Visconti, pubblicata in volume da Bompiani, soltanto ieri sera questa tragedia di Alberto Moravia è arrivata sul palcoscenico del Teatro Comunale dell'Aquila. A togliere le castagne dal fuoco della polemica ha provveduto un coraggioso Stabile che ha ridato il gusto della prosa alle sedici città di cinque regioni comprese in quella che, con orrenda espressione imprestata dal linguaggio autostradale, si usa chiamare la sua « area di servizio ». Secondo i giudici del «Pirandello», Il dio Kurt non aveva qualità e autorità «specificatamente teatrali». Non sbagliavano, come si vedrà, anche se sembrerebbe contraddirli un dramma nel dramma che, in un campo di sterminio nazista, ci fa assistere a una recita dell'Edipo re di Sofocle con la regia del comandante del Lager, il maggiore Kurt, e con l'interpretazione di alcuni deportati ebrei. Non è forse «teatrale» il Marat-Sade di Weiss dove i pazzi di Charenton rappresentano l'uccisione del celebre tribuno? Indubbiamente, ma almeno il divino marchese che li dirige non ha, come questo ufficiale delle SS, la fumosa e capziosa pretesa di compiere un «esperimento culturale » analogo agli « esperimenti scientifici » tentati ad Auschwitz e in altri campi sulla carne martoriata dei prigionieri. Pretesa fumosa perché Kurt si propone addirittura di dimostrare che per tornare ad un'umanità senza Dio come quella degli antichi ariani, e nella quale ciascuno sarebbe un Dio, occorre sbarazzarsi della famiglia, abolirne la morale, rimuovere ogni tabù a cominciare dall'incesto che, come vorrebbe provare la singolare rappresentazione ideata dal maggiore, non dovrebbe essere più riguardato con orrore e riprovazione. E il bello è che questo « superuomo » ariano non esita a servirsi delle teorie dell'ebreo Freud e quando i suoi ufficiali, persino loro, protestano scandalizzati, tira fuori dalla manica l'asso di una lettera di Himmler che gli concede pieni poteri. Ma in che cosa consiste l'eccezionalità dell'esperimento? Gli attori non soltanto reciteranno la tragedia sofoclea, ma la « vivranno ». Letteralmente: un figlio ucciderà il padre e avrà rapporti carnali con la madre e, come Edipo, senza sapere che si tratta dei suoi genitori. Egli crede che la donna, che un kapò istruito da Kurt gli fa incontrare nel buio e nel silenzio, sia più di una e tutte provengano dal bordello delle S.S. (ma la madre, a differenza di Giocasta, conosce la verità, ha accettato soltanto per salvare la vita al figlio) e crede anche che l'uomo, da lui ucciso in un tentativo di fuga, sia soltanto una guardia. La faccenda, oltre che maledettamente complicata appare piuttosto incredibile, ma Moravia risponde che « nei campi tutto è stato possibile ». Naturalmente, questi orribili eventi sono solamente narrati. Saul-Edipo e MyriamGiocasta entrano in scena dopo il parricidio e l'incesto anche se ignorano di averli commessi. Lo sapranno da Kurt che, per concludere in armonia con il mito e con Sofocle, invita l'uno ad ac cecarsi, l'altra ad impiccarsi Ma entrambi rifiutano, Saul ferisce mortalmente il mag giore. L'esperimento è falli to? Macché. Quel diavolo di Kurt aveva preordinato tutto, compresa la sua morte. A che scopo? Dimostrare che il fato greco, che lo stesso Kurt impersonava nella reci ta, deve ormai cedere al fato tedesco. E questo non punì rà Saul e Myriam per le colpe di cui si sono macchiati, ma semplicemente per il fatto di essere nati ebrei. Fosse tutto qui. In realtà, come si capirà a poco a poco, Kurt si è impantanato in questa artificiosissima ricostruzione della leggenda di Edipo per giustificare razionalmente, sia pure al lume delle folli ideologie razziste, la relazione incestuosa che egli aveva avuto con una sorella, e, nello stesso tempo, per vendicarsi di Saul che quella gli aveva preferito rivelandosi, come la Sfinge Tebana con il suo indovinello da quattro soldi, un'insignificante donnicciola. Ed è proprio la torbida passione del protagonista, e non tanto il nazismo e i campi di concentramento, il nucleo essenziale e la più profonda ragione del dramma. Kurt la esprime con gli accenti del più marcio decadentismo, ma almeno questa passione è provvidenziale per variare un interminabile soliloquio che rischia di ridurre Il dio Kurt a un lungo e minuzioso saggio: gli interlocutori, è vero, non mancano, ma sono tanto di comodo che non ingannano nessuno. E, nonostante un intreccio apparentemente fitto, la parola sostituisce, non sempre vantaggiosamente, l'azione. Tanto che il dramma, più che negli espedienti pirandelliani e nelle tirate sartriane, ha le sue pagine più felici quando svolge, davvero con finezza ed acume, alcuni temi minori come l'interpretazione della Sfinge a cui si è accennato, le discussioni sull'arte dell'attore (come era Saul prima della guerra) e una divertente analisi della figura di Edipo, già affrontata ma diversamente nel romanzo L'attenzione, che qui è descritto come un mediocre arrampicatore sociale. Quando fu pubblicato, si disse che la rappresentazione avrebbe forse dissipato le riserve su un testo in ogni caso ricco d'ingegno. Ed è stato così, sia pure soltanto per alcune di esse. Sfrondato e alleggerito (ma si potrebbe tagliarlo ancora utilmente), Il dio Kurt è stato messo in scena dal giovane regista Antonio Calenda con sottolineature grottesche (i nazisti ridotti a marionette che alla fine si disarticoleranno e si afflosceranno) e con una giusta intuizione del dramma come un lucido ma incontenibile delirio del protagonista, al quale Luigi Proietti ha giustamente prestato l'insicurezza, la loquacità e la volubilità di un nevrotico sempre sull'orlo del collasso. La fatica a cui si sottopone il Proietti è massacrante ma contribuisce, con l'efficace scenografia di Franco Nonnis, all'ottimo esito di uno spettacolo in cui Luigi Diberti (Saul) talvolta eccede in naturalismo, Alida Valli (Myriam) è una tragica e umanissima apparizione, Ugo Maria Morosi, lo Zernitz, il Santelli e gli altri sostengono con impegno le parti secondarie. Tutti, alla fine, si sono schierati alla ribalta per ricevere gli applausi scroscianti del pubblico. Cera anche l'autore che, riprendendo una usanza venuta dall'Est, ha risposto, e gli attori l'hanno imitato, battendo a sua volta le mani. Era anche un modo di ringraziare il ministro per il Turismo e lo Spettacolo, on. Natali, che con altre autorità assisteva alla rappresentazione. Alberto Blandi

Luoghi citati: Aquila, Auschwitz, L'aquila