Contestano in scena tra sabbia e carbone

Contestano in scena tra sabbia e carbone </ testimoni» di Rozewicz allo Stabile Contestano in scena tra sabbia e carbone La « prima » dello spettacolo di avanguardia di Quartucci accolta tra polemiche e dissensi - Gli attori vagano su piattaforme mobili - Sullo sfondo centinaia di uccelli cinguettano in gabbia Perché non avvertire subito e chiaramente, almeno nella «scheda» distribuita all'ingresso, che / testimoni, messo in scena dallo Stabile al Gobetti, non è la commedia scritta nel 1963 dal polacco Tadeusz Rozewicz, ma uno spettacolo d'avanguardia, o addirittura sperimentale, del regista Carlo Quartucci che ha « montato » tre diversi testi dello stesso Rozewicz con intenti di' provocazione e, per usale ria parola ancora alla m^iua, di contestazione? Un cenno esplicativo, quello stesso magari che uno dei cinque direttori dello Stabile ha poi fornito dal palcoscenico ad alcuni eroici abbonati rimasti sino alla fine, avrebbe in qualche modo aiutato lo spettatore ad orientarsi nella selva «fonico-gestuale» in cui era stato cacciato. Lo spettacolo del Quartucci pone continuamente a cimento la capacità di intendimento e di sopportazione di quel pubblico che frequenta, quando li frequenta, i nostri teatri. Anzitutto col testo, che interseca e sovrappone ai Testimoni una commedia più recente del Rozewicz, Atto interrotto (1965) e vi mischia alcuni frammenti di Cartoteca (1960), il primo e forse ancora il miglior lavoro di questo autore che è considerato tra gli alfieri del rinnovamento teatrale in Polonia. Tre drammi, ciascuno dei quali traccia un quadro dei proi-.emi di una società socialista in un periodo di crisi: gli ideali della rivoluzione e della resistenza si affievoliscono, prende il sopravvento l'aspirazione al conformismo e al quieto vivere, si tende alla « normalizzazione ». Ma questa «normalizzazione» è soltanto una «piccola stabilizzazione » (come dice il sottotitolo dei Testimoni) ed è affatto illusoria perché ripete, con un modesto e grigio benessere, i più gravi difetti della società consumistica e conduce diritto alla disperazione quei pochi che hanno conservato la mente lucida e distaccata. Conclusione pessimistica, ma abbastanza naturale per la generazione alla quale appartiene il Rozewicz e che ha fatto in tempo a vedere i campi di concentramento nazista ma anche a soffocare sotto la cappa di un regime burocratico e poliziesco come lo stalinismo. Tutto questo non risulta con solare evidenza dalla regia di Quartucci che, dopo aver reso ardui i testi con un elaborato «montaggio», li ha deliberatamente mandati allo sbaraglio su una ribalta assolutamente nuda e violentemente illuminata, sulla quale lo scultore greco Jannis Kounellis ha poi disposto i suoi «materiali scenici »: in fondo, una grande uccelliera con un centinaio di gabbie cinguettanti; qua e là, mucchi di carbone, di sabbia, di pietre, di sacchi continuamente rimossi e spostati, quando non anche buttati addosso agli interpreti che, installati con pochi oggetti su piattaforme mobili, vagano pericolosamente per il palcoscenico. Se abbiamo capito, si vorrebbe inondare lo spazio teatrale di « elementi vivi » (oltre l'uccelliera, piante e uno stupendo tucano in gabbia) e di « materiali poveri » per « disturbare », oltre al pubblico, gli stessi attori, costringendoli a reagire all'ambiente e aiutandoli ad esasperare con i gesti e con voce i vari piani del discorso di Rozewicz, che va dal realismo poetico all'antilirismo, da un beckettismo, in verità di seconda mano, a una più autentica e straziante ironia. E infatti il Quartucci, dopo averlo stravolto, nega anche il testo di cui si serve e la crisi da cui è nato, s'avventa contro il teatro e le sue strutture, distrugge la parola, coinvolge in un'universale contestazione se stesso e lo Stabile che lo ha accolto. Per il furore eversivo ma inconcludente del regista (e duole dirlo perché il Quartucci ha ingegno, anche quando lo spreca masochisticamente in realizzazioni confuse e scoraggianti come questa) ogni mezzo è buono: dalle musiche dissacranti ai suoni e rumori semplicemente assordanti, dall'irrisione dei gesti e delle situazioni del vecchio teatro alle azioni intenzionalmente provocatorie come l'interminabile scena durante la quale decine e decine di sacchi vuoti vengono disposti dappertut¬ to, anche in platea, per essere poi ripiegati e riposti con cura. E' questa scena che, alla prima o anteprima di sabato sera, ha irritato diversi spettatori (ma non si proponeva proprio questo?) e li ha spinti ad alzarsi e ad uscire dalla sala con alte proteste, lasciando libero campo agli estimatori del Quartucci, anche ai più dubbi come alcune patetiche macchiette di finti « beat » vestiti in mòdo stravagante. Cosi, alla fine, i dissensi di pochi (avanguardia dei probabili scontenti delle repliche) sono stati soverchiati dagli applausi che hanno accomunato, con il regista e lo scenografo, tutti gli interpreti dei quali, tra i più efficaci, vanno ricordati, Rino Sudano, Roberto Vezzosi e Wilma D'Eusebio, e ancora il Sammataro, la Ponti, la Sonni e l'Esposito. Stimolante ma sterile, intelligente ma noioso, era il secondo spettacolo in abbonamento dello Stabile e il primo da esso prodotto: il passaggio dall'Amica delle mogli a un'avanguardia che, nonostante tutto, deve avere il suo posto nel cartellone di un teatro moderno, non poteva essere più brusco. E più incauto. Alberto Blandi

Luoghi citati: Amica, Polonia