Da Atene a Beirut di Carlo Casalegno

Da Atene a Beirut Da Atene a Beirut Il 26 dicembre due terroristi del Fronte di liberazione palestinese, appartenenti ad una centrale libanese e partiti da Beirut, hanno attaccato sull'aeroporto di Atene, uccidendo un passeggero, lo stesso « jet » israeliano che la loro organizzazione aveva sequestrato nel cielo di Roma. Il 28 dicembre un « commando » israeliano è sceso sull'aeroporto civile di Beirut ed ha distrutto tredici apparecchi delle aviolinee libanesi. La rappresaglia è giudicata «grave e irragionevole » da Washington, un atto « deplorevole e pericoloso » da Londra, « una sfrontata provocazione» da Mosca; il Vaticano ha rivolto un messaggio di solidarietà al presidente del Libano, e il Consiglio di Sicurezza ancora una volta condannerà Israele. Un'altra di quelle sterili sentenze, che gli israeliani giudicherebbero più eque se l'Onu, invece di limitarsi a condannare la ritorsione, facesse qualcosa di pratico per prevenire gli attentati. L'attacco nell'aeroporto di Atene era grave, ed allarmante per tutti i paesi: i guerriglieri vietnamiti non hanno mai colpito l'America su territorio straniero; ma gli israeliani hanno compiuto una rappresaglia clamorosa, diretta per la prima volta contro il più moderato dei paesi arabi, ed in certa misura imprevista. Fra l'altro, il momento internazionale non era favorevole ad un'azione cosi dura; ed il governo di Gerusalemme sapeva di essere deplorato, in questo caso, sia da Washington che uà Mosca. Le due super-potenze stavano lavorando da qualche settimana, con sforzi convergenti se non concordati, per ridurre i pericoli di guerra nel Medio Oriente. Mentre Johnson si è impegnato con Israele a sostituire gli aerei da combattimento negati dalla Francia, un rappresentante di Nixon ha riaperto il dialogo con l'Egitto e gli altri paesi arabi; Gromyko ha dato a Nasser promesse di aiuto e consigli di moderazione, dopo che il vice-ministro degli Esteri sovietico aveva incontrato (non avveniva dal giugno '67) un diplomatico «sionista». Perché il governo israeliano, interessato alla distensione, non dominato dai « falchi », ha deciso una rappresaglia che appare tracotante e provocatoria, e rischia di giovare al fronte nemico? . La risposta può essere trovata nel fatto più rilevante degli ultimi mesi: il crescere dei movimenti di resistenza palestinesi. Il terrorismo antiebraico era cominciato molto prima che nascesse lo Stato, e dal 1948 Israele ha sempre dovuto difendersi contro sabotaggi ed attentati; ma gli «eserciti di liberazione » arruolati tra i profughi erano impotenti, o addirittura inesistenti. Dopo il conflitto di giugno, e soprattutto nell'ultimo semestre, si sono costituiti gruppi di guerriglieri bene armati, istruiti, diretti; sono alcune migliaia di partigiani che non possono condurre una guerriglia di tipo vietnamita, ma eseguire pericolose operazioni terroristiche. E che sono diventati, come scrive il Guardian, « la terza forza del mondo arabo ». Tengono praticamente prigioniero il re di Giordania, che pure ha tentato con ogni mezzo militare e politico di ridurne l'importanza. Condizionano Nasser ed incoraggiano il bellicismo dell'esercito egiziano. Sono sostenuti attivamente dalla Siria e dall'Irak; e tollerati dai paesi conservatori, come il Libano o l'Arabia saudita, sotto la spinta dell'opinione popolare. Il loro programma, apertamente dichiarato, rifiuta le soluzioni di compromesso offerte dall'Onu: vuole la fine dello Stato israeliano, l'espulsione degli ebrei europei, il ritorno dell'intera Palestina agli arabi. Le loro basi circondano tutte le frontiere di Israele; essi non potrebbero resistere senza l'appoggio dei paesi che li ospitano, ma sono in grado di limitarne la libertà politica. Le rappresaglie israeliane si propongono di fronteggiare la crescente minaccia, dimostrando agli Stati arabi che ogni complicità con i terroristi costa troppo cara: forse, per Gerusalemme, è l'unica speranza di tagliare le radici della guerriglia. Ma, anche se fosse efficace, questa politica non avvicina la pace: la catena degli attentati e delle ritorsioni rende sempre più arduo il compito dei mediatori. Le due massime potenze, se concordi, possono impedire una ripresa generale ''-'Ila guerra e limitare il conflitto; non possono condurre arabi ed israeliani ai negoziati senza un periodo di tregua, nelle armi e negli spiriti. L'attacco di Atene è un crimine inescusabile; è dubbio che la rappresaglia di Beirut sia un atto di saggezza politica. Carlo Casalegno Il rappresentante del Libano, in basso, e quello di Israele durante la riunione del Consiglio di Sicurezza alle Nazioni Unite (Telefoto « Associated Press »)

Persone citate: Gromyko, Johnson, Nasser, Nixon