Il "liceo rosso" di Napoli

Il "liceo rosso" di Napoli INQUIETUDINE E RIVOLTA NELLE SCUOLE MEDIE ITALIANE Il "liceo rosso" di Napoli Così è definito dai conservatori, con molta esagerazione, il « G. B. Vico », attaccato poche settimane fa dagli squadristi I suoi allievi guidano il « movimento studentesco » napoletano - Pur vivendo in un ambiente dove non è morto il vecchio fascismo, hanno le idee e le parole d'ordine dei loro compagni al Nord - Diffidano del regime parlamentare, inseguono la rivoluzione attraverso la riforma della scuola, cercano l'incontro con gli operai - Sono severi con la famiglia e i maestri, ma con un certo rispetto: forse perché sentono che padri e figli possono ancora condurre insieme la battaglia democratica (Dal nostro inviato speciale) Napoli, dicembre. A Napoli il liceo classico « Giovan Battista Vico » è famoso da tempo per due caratteristiche: per il livello dell'insegnamento e dei risultati scolastici (l'anno scorso all'esame di maturità non vi fu neppure un respìnto) e per l'appellativo di « Liceo rosso » affibbiatogli con molta esagerazione dall'estrema destra napoletana per il solo fatto che. su una sessantina di professori, c'è sempre stata una esigua ma attiva pattuglia di insegnanti di sinistra. Da un mese a questa parte la fama del « Vico » si è estesa anche fuori di Napoli per i violenti scontri avvenuti la sera del 3 dicembre fra i giovani del Movimento studentesco che oc- capavano la scuola e grup pi dì attivisti neofascisti che volevano « liberarla dai rossi ». Al momento dell'attacco, verso le undici di sera, gli occupanti erano soltanto una quarantina, la maggior parte degli studenti era ritornata a casa. Anche gli assalitori non erano molto numerosi, fra i cinquanta e i sessanta, ma particolarmente violenti, decisi a tutto. « Due terzi dei neofascisti erano uomini maturi, estranei all'ambiente della scuola — mi dice un professore del " Vico " che assistette alla scena — l'altro terzo erano univers. ari appartenenti a organizzazioni di destra. Di studenti del "Vico", fra loro, non ne ho visto nessuno ». Dopo aver inutilmente tentato di sfondare i portoni barricati dall'interno, gli aggressori cosparsero di benzina una porta secondaria, le appiccarono fuoco, riuscirono a forzarla. Una volta entrati incendiarono anche alcune attrezzature della palestra, e, dopo aver devastato il gabbiotto di vetro del custode, al grido di «Bruciamoli vivi! », si slanciarono per le scale, vanamente contrastati dalle retroguardie degli occupanti che proteggevano la ritirata del grosso. Una scena tragicomica che, con un balzo indietro di cinquantanni, riportava di colpo l'Italia dall'era missilistica ai tempi delle squadre fasciste. La polizia arrivò ancor dopo i pompieri, a settanta minuti dal primo attacco. Gli studenti assediati parlano di « indugio premeditato », altri invece pensano che in un primo momento nessuno si sia reso esattamente conto della gravità dell'episodio: forse la polizia pensava ad una delle tante manifestazioni di esuberanza giovanile. Anche molti abitanti del quartiere, invece di aggrapparsi ai telefoni per chiedere l'intervento della forza pubblica, restarono affacciati alle finestre come se si trattasse di uno spettacolo di fuochi artificiali. Che non si trattasse di una Piedigrotta in miniatura, ma di programmata violenza, risultò chiaro il giorno dopo quando i neofascisti, insoddisfatti del modo in cui II Mattino aveva steso la cronaca delle loro gesta, dettero l'assalto anche alla redazione del giornale abbandonandosi a nuovi atti vandalici. Questi episodi bastano da soli a dimostrare come il Movimento studentesco nel Mezzogiorno si muova ed operi in condizioni notevolmente diverse da quelle delle grandi città del Nord. Nel Settentrione la rivolta degli studenti affonda le sue radici nella società del benessere; il fascismo vero e proprio, quello delle camicie nere, è un fatto storico superato e lontano, che le nuove generazioni considerano con distacco come i film dì Francesca Bertini o certe poesie marziali di Gabriele d'Annunzio. Qui il quadro è diverso; a Napoli, nonostante V evoluzione degli ultimi anni, la società del benessere non si è ancora affermata, l'estrema destra politica ha ancora un certo peso, la parola « fascista » mantiene il significato di quarantotto anni fa: manganelli, botte, «Me ne frego ». Verrebbe quindi fatto di pensare che il Movimento studentesco napoletano, sorto in un terreno tanto particolare, dovesse avere tendenze e orientamenti molto diversi da quello del triangolo industriale. Invece la cosa che più impressiona è la sua identità quasi assoluta con quello del Nord. A Napoli la protesta studentesca è forse più giovane e meno organizzata, ma i suoi fini e le sue parole d'ordine, non ci son dubbi, coincidono con quelli delle regioni altamente industrializzate. Me ne accorgo non appena prendo contatto con un gruppo dì esponenti del Movimento studentesco, una delle pattuglie di punta che guidano le attuali agitazioni. Anch'essi, come i loro compagni del Settentrione, ripudiano violentemente tutti i partiti e non hanno alcuna fiducia che il sistema democratico parlamentare possa portare ad una effettiva riforma scolastica. Solo uno di loro sostiene che, cambiando la scuola, si potrà a poco a poco cambiare anche la società; tutti gli altri capovolgono i termini del problema: per cambiare la scuola è indispensabile trasformare la società. Questa sfiducia costituisce il nucleo centrale della contestazione globale e pertanto rivolgo anche a questi giovani la domanda che ho già posto ai loro compagni di Milano, di Torino e t|t Roma: non pensano che anche col sistema democratico parlamentare si possa' -fUrt* novare la scuola? A nome di tutti i presenti mi risponde R. F., diciott'anni, terza liceo, barba risorgimentale. « No, non abbiamo speranze in questo senso — dice. — A nostro giudizio l'attuale sistema politico economico è ormai giunto a un tal punto di disgregazione da non aver più alcun margine per ulteriori concessioni riformistiche. Se intraprendesse una riforma vera e propria, si darebbe il colpo di grazia, commetterebbe suicidio. E se anche riuscisse a sopravvivere per qualche tempo, si tratterebbe soltanto di un breve rinvio. Abolendo l'autoritarismo, favorendo la scuola critica, permetterebbe alle nuove generazioni di aprire sempre più gli occhi. La rivoluzione sarebbe soltanto rimandata ». L'ipotesi che l'acquisizione di una coscienza critica possa portare ad analisi ponderate, a prudenti valutazioni del « meno peggio », non sfiora neppure le loro menti. Nei loro animi esuberanti, « presa di coscienza » significa automaticamente « rivoluzione », piazza pulita del passato con tutto il suo male ed il suo bene. Il monito su quanto è avvenuto in quasi tutti i Paesi socialisti dell'Est europeo che partiti da nobili propositi egualitari, hanno finito per costruire rigide e opprimenti piramidi burocratiche, non fa presa su di loro. Obbiettano candidamente che la loro critica nei confronti dell'Urss e degli altri Paesi socialisti, eccezion fatta per la Cina e per Cuba, non è meno severa di quella nei confronti dei Paesi capitalisti. Pur conoscendola poco, dimostrano invece una fiducia profonda nella classe operaia: anzi, molti di loro si sforzano per stabilire qualche contatto con le fabbriche, ma si sono accorti subito che si tratta di una impresa tutt'altro che facile. « Con i vecchi operai della Italsider e delle altre industrie tradizionali facciamo una certa fatica ad intenderci perché sono fermi sulle posizioni tradizionali, ancorate al partito e al sindacato — mi dice un altro studente di terza liceale. — Ci capiamo meglio con gli operai degli stabilimenti nuovi, impiantati da poco, gente che fino a un anno o due fa faceva un altro mestiere. Hanno ancora una mentalità vergine, senza schemi preconcetti. Come la nostra ». Con una certa sorpresa noto che anche il loro « no » nei confronti della famiglia non è meno netto di quello dei loro compagni del Nord. Pensavo che questi studenti napoletani, per quanto contestatori globali, alla fin fine dovessero risentire di certe tradizioni locali, non potessero sfuggire a quel culto della madre e della famiglia cui si ispira una società fondamentalmente contadina come quella meridionale. Invece son quasi tutti d'accordo nel diniego, per la maggior parte di loro la famiglia è «il covo dell'egoismo ». « I nostri genitori ci vogliono bene — sbotta R. I., 17 anni, seconda liceale — ma quando cerchiamo loro di spiegare le nostre idee di solidarietà umana e universale, cosa sanno risponderci? "Chi te 10 fa fare, pensa agli affari tuoi". Non una parola di più ». Le stesse accuse che ho sentito nelle città del Nord, ripetute quasi parola per parola. A voler proprio trovare una differenza, direi che nel Mezzogiorno queste accuse, per quanto sostanzialmente altrettanto violente, vengono pronunciate con minor virulenza di toni. In fondo alla voce di questi contestatori napoletani, quando parlano dei loro padri, dei loro professori, dei loro presidi, mi pare di notare una sfumatura di rispetto — rispetto per l'avversario, s'intende — che altrove non avevo notato. Mentre lascio 11 casermone del « Vico », fra la rumorosa confusione dì via Salvator Rosa, mi domando se ciò dipenda^ dàlia particolare umanità dei meridionali o dal fatto che a Napoli esistono e agiscono ancora le squadre fasciste. Qui dopotutto gli antifascisti legati alla democrazia parlamentare — che gli studenti di Milano e di Torino definiscono sbrigativamente u borghesi integrati » — possono essere dei preziosi alleati nei momenti difficili. Gaetano Tumiati

Persone citate: Francesca Bertini, Gabriele D'annunzio, Gaetano Tumiati, Giovan Battista, R. F., Rivolta