La Sicilia più povera di Francesco Rosso

La Sicilia più povera OLTRE AVOLA, NEL CENTRO DELLA DEPRESSIONE ISOLANA La Sicilia più povera Il "triangolo della miseria" è compreso fra Caltanissetta, Enna e Agrigento - Anziché progredire, qui si fanno passi indietro Le miniere di zolfo, per lo più improduttive, sono state chiuse o meccanizzate, accentuando così il fenomeno migratorio - La riforma agraria s'è limitata a polverizzare la proprietà: i nuovi villaggi,senz'acqua e senza luce,stanno crollando; gli assegnatari abbandonano i lotti e tornano alla vita del bracciante - Le sole oasi di benessere, i centri industriali di Gela e Campofranco (Dal nostro inviato speciale) Caltanissetta, dicembre. « Il triangolo della miseria siciliana ha il suo vertice a Caltanissetta, dilaga su Enna e Agrigento». La frase ha un po' il sapore di un luogo comune; invece, è una contristante realtà, che le cifre documentano. Il reddito medio, in questa Sicilia interna, si aggira sulle 280 mila lire l'anno a persona, poco più della metà del reddito meuio nazionale, ma questa cifra perde ogni significato se si tiene conto di alcune circostanze. In provincia di Caltanissetta, ad esempio, su quel reddito incide fortemente la massa dei salari degli operai che lavorano nel centro petrolchimico di Gela, meno di tremila fortunati che hanno paghe di poco inferiori ai loro colleghi del Nord; per gli altri trecentomila, il reddito precipita a livelli africani, sulle 130 mila lire l'anno. Sono condizioni drammatiche, e con poche speranze che migliorino; anzi, c'è la tetra prospettiva che peggiorino, a giudicare dal recente passato. Mentre altre zone della Sicilia, specialmente di quella orientale, hanno tenuto il passo abbastanza bene con lo sviluppo economico del paese, le tre province che formano il triangolo della miseria hanno fatto un ulteriore passo indietro. Fino a qualche anno fa, le miniere di zolfo, sia pure irregolarmente, procuravano lavoro ad un buon numero di minatori. Erano miniere antiquate, antieconomiche; quando la Regione le assorbì, fece un lodevole lavoro di riorganizzazione per renderle competitive. Chiuse le più povere di zolfo, meccanizzò quelle più redditizie, e licenziò i tre quarti dei minatori attraverso l'esodo volontario; una buona liquidazione, da quattro a sei milioni secondo l'anzianità, e circa diecimila zolfatari si trovarono con un gruzzoletto, ma disoccupati e senza prospettiva di trovare altro lavoro. L'emigrazione fece un balzo vertiginoso, in meno di dieci anni sono emigrati dalle tre province povere più di duecentomila operai su meno di un milione di abitanti, oltre il venti per cento. Sono partiti i più giovani, sono rimasti gli anziani ed i vecchi. Viaggiando attraverso questi borghi e villaggi di campagna si prova la sensazione di tornare indietro nel tempo, a quella Sicilia immobile che si credeva cancellata per sempre. Ed il contrasto diventa ancor più stridente nei centri dove sono sorte alcune industrie, a Gela ed a Campofranco, divenute isole di benessere; teorie interminabili di carretti, o di muli affardellati, incrociano le automobili e le motociclette degli operai dell'industria che entrano, o escono dallo stabilimento. Sono due mondi che vivono in sfere economiche e sociali sempre più lontane, 10 stabilimento non è diventato un polo di sviluppo industriale, come si pensava, e l'agricoltura è rimasta quella che era, la fonte di un reddito miserrimo, un ambiente sempre più chiuso. Ci sono le rimesse degli emigranti, anche cospicue, ma che rimangono improduttive, depositate in banche, e soprattutto alla Posta. All'Unione industriali, alla Cgil ed alla Cisl, mi confermano queste voci; in provincia di Caltanissetta, dove 11 fenomeno migratorio è più intenso, le banche ed i depositi postali sono gonfi di risparmi degli emigranti, risparmi che non sono investiti in provincia, ma risalgono la Penisola a creare maggiori investimenti nelle regioni già industrialmente sviluppate. La stasi nel progresso economico di queste province, che deve essere considerata un regresso, è dovuta anche alla mancanza di iniziativa della gente; l'agricoltura è rimasta quella di secoli addietro, grano e fave, un po' di pascolò, null'altro. Nessuno ha tentato le trasformazioni agricole, scarsa è ancora la meccanizzazione, il bracciantato rimane tuttora la sola, insostituibile macchina per lavorare la terra. Altrove, specie fra Siracusa e Catania, il bracciante ha già la fisionomia di operaio agricolo; qui rimane il manovale della zappa e della falce, uomo da fatica da ingaggiare la mattina nei « quartini » in quell'avvilente « mercato delle braccia » che sopravvive soltanto in Sicilia. Domando se i « caporali », cioè i fiduciari degli imprenditori, palpano ancora i muscoli degli aspiranti all'ingaggio, per accertarsi della loro resistenza alla zappa e alla falce; mi assicurano che accade ancora, specie nei villaggi più sperduti dell'interno, dove il controllo dei sindacalisti non arriva. Il salario di questi uomini è, in media, di 2600 lire al giorno, irrisorio se si tiene conto delle schiere di bambini che continuano a mettere al mondo, e che devono mantenere, e delle scarse giornate di lavoro che riescono a fare in un anno, in media centocinquanta; alla fine, quando saranno vecchi, riceveranno una pensione da fame, e ciò per colpa della loro furbizia contadina. Anche qui, come in altre regioni, il contadino si accorda col datore di lavoro; giunto alle cento e una giornata lavorativa, niente più denunce; l'imprenditore risparmia il versamento dei contributi di invalidità e vecchiaia, i braccianti hanno diritto al sussidio di disoccupazione, 400 lire al giorno per centottanta giorni l'anno. Una duplice truffa allo Stato ed agli enti assicurativi. Senza contare che negli elenchi anagrafici dei braccianti entravano macellai, barbieri, camerieri, perfino dei preti; incassavano la disoccupazione e ricorrevano alla mutua gratuita. Disonestà dilagante, si dirà, ma basta vivere alcuni giorni in questi villaggi, depressi sino alla disperazione, per rendersi conto che la furbizia, anche delittuosa, può essere indispensabile per sopravvivere. Perché qui, tranne pochi notabili, sono tutti alla miseria più avvilente. Villaggi come Palma di Montechiaro, Riesi, Mazarino, Niscemi, sono tristemente famosi, e non solo in Italia, per le condizioni in cui vivono i braccianti agricoli, la maggioranza della popolazione. Dicono gli studiosi di qui che per trasformare l'ambiente bisogna formare innanzitutto l'uomo; ma l'uomo non muta se non cambia anche l'ambiente in cui vive. E nelle tre province della miseria siciliana è stato fatto poco, o nulla per trasformare l'agricoltura, rimasta l'unica fonte di reddito. La riforma agraria, con 10 scorporo del latifondo, si è rivelata un fallimento; hanno assegnato quattro ettari di terra a circa tre mila contadini in provincia di Caltanissetta, gli hanno detto: «La terra è vostra», e 11 hanno abbandonati a se stessi. Nessun tentativo di organizzarli in cooperativa con gli strumenti di lavoro in comune, con assistenza tecnica almeno agli inizi. Il risultato è evidente; i villaggi costruiti dall'Ente riforma, senz'acqua e senza luce, sono rimasti deserti, già crollano; molti appezzamenti sono stati abbandonati perché una famiglia numerosa non può vìvere su quattro ettari di terra, gli assegnatari sono tornati a fare i braccianti. Lo smembramento del latifondo poteva essere davvero la rivoluzione agricola; si è ridotto alla polverizzazione delle proprietà per la mancanza di idee in chi ha realizzato la riforma agraria. In provincia di Caltanissetta, su 3927 lotti assegnati, oltre mille sono stati abbandonati, o sono per esserlo, dagli assegnatari. Anziché evoluzione, quindi, bisogna parlare di regresso, coi braccianti che ancora fanno gruppo nei « quartini », agli angoli delle piazze, in attesa che il « caporale », protezione mafiosa aiutando, li ingaggi, come cent'anni addietro, e partono all'alba, sul mulo i più anziani, in moto i pochi giovani che ancora lavorano nei campi, per raggiungere il posto di lavoro, spesso distante molti chilometri. Mi dicono che in piena stagione, quando il grano ha urgenza di essere mietuto, i braccianti guadagnano anche cinquemila lire al giorno, e si assiste a spettacoli pittoreschi; con una gran lobbia di paglia in testa, e ditali fatti di canne vuote infilati nelle dita, perché la spiga secca e ruvida taglierebbe la pelle, i mietitori migrano dalla costa verso l'interno, seguendo il ciclo di maturazione del grano, precoce in pianura, tardivo in collina. Schiena curva sotto il sole che folgora, cantano; incantesimo da intellettuali di provincia, che alle mie timide osservazioni rispondono: « Ma se ci fossero tante mietitrebbia, che farebbero i braccianti di queste province? ». Ragionamento che disarma, in questa Sicilia davvero immobile. Francesco Rosso 4

Persone citate: Schiena