È di rapporti umani il problema dei nostri emigrati in Svizzera

È di rapporti umani il problema dei nostri emigrati in Svizzera DALLE TENSIONI DEL SUD AL LONTANO MONDO EUROPEO È di rapporti umani il problema dei nostri emigrati in Svizzera Sul piano professionale, sono bene integrati: lavori pubblici, edilizia, industrie metalmeccaniche hanno bisogno dei settecentomila italiani - Il guadagno è soddisfacente, la pace sociale completa - Ma le due comunità stentano a fondersi, anche se gli episodi di vera xenofobia sono eccezionali - C'è una vecchia Svizzera fedele al passato, che non accetta le impetuose trasformazioni portate dagli stranieri e rimprovera agli italiani di affollare non solo le fabbriche, ma le scuole e gli ospedali (Dal nostro inviato speciale) Zurigo, dicembre. Nei caffè e nelle pizzerie di Langstrasse, arteria del quartiere italiano, gli immigrati commentano quel che è avvenuto in Sicilia con un distacco dolente, come se le distanze fossero ingigantite da urn giorno all'altro. Ripetono quel che avevo sentito poche ore prima da alcuni operai meridionali delle fonderie Von Roll, in una valle boscosa verso Berna: « E' incredibile che si possa ancora sparare per un conflitto di lavoro ». La pace sociale svizzera, un po' paternalistica e sospetta di effetti anestetici (il problema delle giuste pensioni è tuttora aperto), appare agli immigrati in una nuova lu¬ ce sotto l'onda emotiva portata dai giornali. Da cinquant'anni non c'è uno sciopero generale nella Confederazione. Dal 1937 vige l'impegno di risolvere ogni controversia con trattative nel segno della buonafede. E gli immigrati scoprono che l'inventario delle loro rivendicazioni ha una consistenza sempre meno aridamente economica. Un leccese, Francesco Mariano, riassume con efficacia: « Quanto a paghe va bene. C'è chi manda 70 mila lire nette a casa ogni mese, anche 100 mila. Ma tutti vorremmo stare meglio come uomini ». Ecco la grande evoluzione attesa in Svizzera: far entrare gli italiani in un corpo sociale che fino¬ ra li considerava estranei. Me lo conferma il regista zurighese Alexander Seiler, autore di un coraggioso documentario. Die Italiener, costato un anno di lavoro: « Noi svizzeri abbiamo creduto di importare temporaneamente braccia da lavoro, non uomini. Abbiamo trattato gli immigrati come oggetti, con la cura che si dedica a oggetti da usare e rispedire, non a creature umane ». Un milione di immigrati, su sei milioni di svizzeri, settecentomila italiani compresi centomila bambini che fanno straripare i giardini di infanzia e mettono in crisi il perfetto meccanismo della scuola svizzera. Si assiste agli effetti di un vero e proprio trauma. Le strutture saltano, ma l'economia svizzera non può più fare a meno degli immigrati, che le hanno permesso balzi prodigiosi (il prodotto nazionale lordo era di 19.990 milioni di franchi all'inizio dell'ondata italiana, salì a 37.840 milioni nel 1960, a 60.000 nel 1965, oggi sflora i 70.000). L'industria metalmeccanica e di precisione si regge in buona parte su più di centomila italiani, l'espansione edilizia e le grandi opere pubbliche, come il traforo del Gottardo e la rete autostradale, non sarebbero realizzabili senza i 137 mila italiani occupati nel settore. « Rappresentano una forzalavoro prodigiosa », ha detto Ernst Scharb, segretario degli industriali. Lo stesso mercato interno si è dimensionato in funzione della presenza italiana. Il direttore di una grande catena di magazzini mi dice: « Il venti per cento dei consumi è dovuto agli italiani ». Afora possono più farne a meno, ma ne sono spaventati o turbati. Gli ospedali cantonali, modello di efficienza, sono occupati al 25 per cento da immigrati e sta diventando difficile trovare un letto. I reparti maternità, un tempo sovrabbondanti e silenziosi come laboratori di ricerca, sono spesso congestionati da madri italiane con il neonato (mitigate le restrizioni inumane, molte famiglie si riuniscono). Mancano le aule per le scuole elementari e i comuni devono affittare stanze per sistemazioni provvisorie. « Proprio in questi giorni ci stiamo occupando di 489 bambini che non trovano un buco in nessuna scuola di Zurigo », mi dice il console^ La fame di abitazioni è tale che gli italiani si insediano nei centri rurali, venendo a lavorare ogni mattina in città, con un moto « pendolare » che richiede più treni e nuovi sistemi di comunicazione. L'edilizia residenziale ha impennate speculative: i condomini colossali alla periferia di Zurigo, semivuoti perché troppo costosi, gli altissimi affitti per le case vecchie. Nel quartiere 4, dietro la stazione centrale, prevalentemente abitato da italiani, 30 mila lire al mese per una stanza con doccia, 60 mila per un modesto appartamentino. La massa piccolo borghese è portata a vedere i soli aspetti elementari e negativi del fenomeno: « Molti svizzeri considerano gli stranieri colpevoli delle debolezze del sistema, della povertà di case e di servizi. Non capiscono che gli stranieri hanno semplicemente rivelato queste debolezze », dice un sociologo, il professor Nowotny, dell'Università di Zurigo, pur ammettendo che l'istinto di difesa degli svizzeri sia naturale. Un volantino diffuso dai giovani socialisti zurighesi avverte: « L'odio alimentato contro gli stranieri nasconde il desiderio di conservare una Svizzera che non esiste più, una Svizzera con costumi e popolazione di un secolo addietro ». E Max Frisch, lo scrittore più impegnato in questo momento, mi dice: « E' la paura di vedere il mondo trasformarsi ». Frisch aveva fatto sobbalzare sulle seggiole i capi delle polizie cantonali riuniti a convegno sul problema del rapporto fra svizzeri e stranieri: « La xenofobia nasce dalla paura dell'avvenire e della vita ». Lo scrittore ritiene che la massiccia immigrazione straniera possa dare nuova vitalità al suo Paese: « L'inforestieramento offre alla Svizzera l'opportunità di rigenerarsi ». Molti svizzeri sentono questi problemi con un morso alla coscienza. Sarebbe ingiusto e sbrigativo parlare di xenofobia diffusa in forme grossolane. La tragedia di St-Moritz è tremenda ma isolata. L'ultimo episodio di xenofobia a Zurigo risale alla primavera. E' quello del « Bar Rio »: il proprietario scacciò i clienti italiani ma fu obbligato dagli studenti zurighesi a rimangiarsi gli insulti, a scusarsi. Il profumiere Stocker, iniziatore del movimento contro gli italiani, venne presentato dalla televisione in lingua tedesca col sottofondo di canti e passi cadenzati di « SS ». I cinematografi invitano con la scritta «parlato italiano». E una signora zurighese fonda il Centro per i contatti umani fra svizzeri e nostri emigrati. Si possono citare mille casi che vietano le generalizzazioni. Nel sobborgo di Dubendorf tremila italiani danno il « premio dell'amicizia » al sindaco di lingua tedesca. Il regista Alexander Seiler mi racconta un esempio opposto: «A Staefa, dóve abito, il Consiglio comunale ha respinto la proposta di destinare-una modesta somma per corsi intesi a fare corioscere le nostre istituzioni agli immigrati ed a mantenere i loro legami con la cultura italiana ». Ormai è chiaro a tutti che il giorno bell'esodo in massa dei lavoratori stranieri non è vicino e che la « meridionalizzazione » si estende in ogni angolo. Gruppi di siciliani lavorano in ottimo accordo con i pastori dell'Emmenthal, fra i più chiusi e gelosi. Una minoranza spera, però, che tutto ritorni come ai bei tempi antichi. Visitando un edificio per abitazioni di stranieri alla periferia di Zurigo mi sento dire: « Il pregio di questo palazzo di aspetto modesto sta nel fatto che il giorno X potrà essere rapidamente trasformato in una casa per abitazioni normali ». Il sogno del « giorno X » si nasconde nell'inconscio, come difesa contro l'idea di una nuova Svizzera, diversa da quella mitologica. Lo aveva già avvertito Jung, che era zurighese: « Ogni idea nuova è per lo svizzero come un animale misterioso, da evitare fin che si può ». Mario Fazio Molti lavoratori italiani residenti a Zurigo scelgono come luogo di abituale ritrovo la stazione ferroviaria