Come l'America fu coinvolta in una «guerra sbagliata» di Ferdinando Vegas

Come l'America fu coinvolta in una «guerra sbagliata» Come l'America fu coinvolta in una «guerra sbagliata» Poco importa se ragioni elettorali hanno influito sulla decisione di Johnson: un passo simile va bene al di là di ogni contingenza elettorale, è veramente ima scelta di portata storica, che significa un ripensamento profondo della politica americana. Appare evidente che l'impulso determinante è venuto dalla straordinaria, indomabile resistenza del popolo vietnamita; ma la spinta finale gli americani l'hanno trovata in se stessi, nel coraggio dei forti che un grande Paese deve pure avere. Occorreva infatti non poco coraggio per riconoscere che l'America, come è stato detto, stava combattendo « la guerra sbagliata, nel posto sbagliato, nel momento sbagliato». Come mai gli Stati Uniti si sono invischiati in questa impresa? L'impegno americano risale al giugno del '50 (lo stesso mese in cui scoppiò la guerra di Corea), quando Truman decise d'inviare «aiuti economici e materiali militari» ai francesi che già combattevano contro il Vietminh. In quattro anni, fino alla caduta di Dien Bien Phu (maggio '54), gli Stati Uniti sostennero non meno dell'ottanta per cento del costo totale dello sforzo francese. Gli accordi di Ginevra (20 luglio '54), che misero fine alla prima guerra d'Indocina, prevedevano la divisione del Vietnam lungo il 17" parallelo, come pura linea di demarcazione militare; la divisione stessa era provvisoria, in attesa che elezioni generali, da tenersi entro due anni, stabilissero il regime del Vietnam unito. Gli Stati Uniti, presenti a Ginevra ma non firmatari degli accordi, intesero invece la soluzione come una spartizione di fatto, definitiva: il Vietnam settentrionale ai comunisti, quello meridionale al « mondo libero ». Dulles, che allora dirigeva la politica estera americana, considerava il comunismo come il male in assoluto; il suo scopo nell'Asia orientale meridionale era quindi il contaìnment della Cina ed il Vietnam meridionale doveva servire da bastione. Il 17" parallelo, in altri termini, segnava la linea estrema d'avanzata del comunismo. Perciò Washington appoggiò il governo di Diem a Saigon e gli promise subito aiuti (lettera di Eisenhower a Diem del 23 ottobre *54), per «resistere all'aggressione comunista », purché si impegnasse ad « intraprendere le riforme necessarie ». L'intervento indiretto americano avveniva dunque non solo per ragioni ideologiche e di potenza, ma anche per un principio caro agli americani, per « aiutare quei popoli ad aiutarsi da soli». Ma Diem, anziché le riforme, intraprese la costruzione di un regime personale, tirannico e corrotto, e gli Stati Uniti non seppero dissociarsene in tempo, restando così presi in un ingranaggio fatale. I vietnamiti, i quali poco si curavano di comunismo o democrazia, poterono solo constatare che le speranze del '54 erano deluse: niente elezioni nel '56, rinnovata imposizione delle peggiori condizioni di sfruttamento sociale. Non restava altro da fare se non riprendere le armi; e così cominciò la seconda guerra d'Indocina, dapprima con azioni isolate, poi, costituitosi il Fin (dicembre '60), su scala più ampia, con la guerriglia, e infine con la guerra vera e propria. Washington rispose inviando dei consiglieri militari, che nel dicembre '60, alla fine della presidenza Eisenhower, erano settecentosettantatré. L'anno seguente Kennedy compiva la svolta decisiva, aumentandoli a sedicimilacinquecento: « consiglieri » ormai per modo di dire, in realtà combattenti a fianco delle truppe di Saigon. Così si metteva in moto il meccanismo inesorabile dell' imperialismo e della contrapposta lotta di liberazione. Poiché i « clienti » di Saigon non sapevano o non volevano sbrigare la bisogna, la potenza imperiale dovette intervenire in proposito. Eliminato Diem (1" novembre '63), i governi si succedet¬ tero a Saigon, ma senza mai acquistare credito agli occhi della popolazione. L'unico sostegno del regime rimasero le truppe americane, che Johnson cominciò ad inviare in quantitativi massicci dal 1965 (duecentomila uomini), giustificandosi con l'intervento dell'esercito regolare del Vietnam settentrionale. Infine, per «punire » Hanoi del suo intervento, il 7 febbraio '65 fu dato inizio ai bombardamenti sul Nord, la cosiddetta escalation. In realtà, gli Stati Uniti, non riuscendo a vincere le guerra sul suo terreno naturale, il Sud, credettero di risolvere il problema portandola al Nord. Gli avvenimenti hanno dimostrato l'infondatezza del calcolo, finché Johnson ha deciso saggiamente di liquidare l'eredità ricevuta da Eisenhower e Kennedy. Per riuscirvi, ha dovuto accettare, almeno formalmente, V irremovibile imposizione di Hanoi: prima cessate i bombardamenti, senza reciprocità da parte nostra, poi negozieremo. Gli americani lo chiamano un «argomento teologico», ma per Hanoi era una questione vitale che l'« aggressore » non fosse su piede di parità con l'« aggredito ». Sostanzialmente, tuttavia, Hanoi ha dato le garanzie di reciprocità, sicché il 6 potranno cominciare i negoziati, con la partecipazione di tutte le parti, compresi il governo di Saigon ed il Fin. Saranno certamente lunghe e difficili, mentre nel Vietnam meridionale continuerà a scorrere il sangue; ma l'esito non dovrebbe esser dubbio. Hanoi ed il Fin sono pronti a tutte le concessio¬ ni per «salvare la faccia» degli americani e poter così ottenere il proprio scopo finale: il ritiro degli americani, il regolamento della questione tra vietnamiti. Ferdinando Vegas 1 st Soldati americani a Saigon ascoltano soddisfatti la radio che annuncia la decisione di Johnson (Radiofoto U.P.I.)